Opinioni

Ecco perché la legge 40 impedisce il parto in anonimato. Menzogne e irragionevoli esultanze dei «cultori della morte»

Carlo Casini, presidente del Movimento per la vita domenica 11 novembre 2012

So che c’è un filmato americano contro l’aborto intitolato "L’eclissi della ragione". Non l’ho visto e non posso giudicarne il contenuto, ma il titolo mi sembra particolarmente idoneo a qualificare alcuni comportamenti che, per negare il diritto alla vita del concepito, rifiutano di guardare, di ragionare e sono disposti persino a mentire. È il caso, ad esempio, di quanto trovo scritto con rilievo sulla "Repubblica" di giovedì scorso a commento del voto di una Commissione della Camera dei deputati che vorrebbe abrogare il secondo comma dell’art. 9 della legge 40 sulla procreazione medicalmente assistita. Leggo: «La legge è stata bocciata cinque volte dalla Consulta e una volta dalla Corte di Strasburgo». È un falso, perché la Corte Costituzionale una sola volta ha annullato quella parte dell’articolo 14 che imponeva la generazione di più di tre embrioni in un solo ciclo (sentenza 151 del 2009). Tutte le altre sentenze costituzionali cui si riferisce il giornale citato hanno respinto le eccezioni di costituzionalità che erano state sollevate. L’autentico «odio» di alcuni ambienti contro la legge 40 non può derivare dai limiti che essa pone alla fecondazione artificiale, che non impediscono il crescente numero dei figli della provetta (come dimostrano le annuali Relazioni ministeriali). Il fatto è che, nonostante le serie riserve etiche su queste nuove tecniche espresse dall’antropologia cristiana, la legge si ispira al riconoscimento dell’embrione umano come soggetto di diritto. Questo è insopportabile per quella che Giovanni Paolo II ha chiamato «cultura della morte». Ecco, allora, il perché della irragionevole esultanza di alcuni per il tentativo di abrogare il comma dell’art. 9, che non consente il parto in anonimato quando è stato fatto ricorso alla fecondazione artificiale. La norma che consente alla donna di non fare indicare il proprio nome come madre di un bimbo partorito è stata introdotta nel 2000 per prevenire l’infanticidio e l’aborto. Si suppone che una donna abbia tenuta nascosta la gravidanza o comunque non voglia farla conoscere e che per questa ragione sia tentata di abortire oppure di 'buttar via' il figlio nell’angoscia di un parto solitario, oltretutto pieno di rischi per lei stessa. Ma questa situazione è impossibile nel caso di fecondazione artificiale, che, per definizione, avviene alla luce del sole con la partecipazione di molte persone, con la redazione di una cartella clinica e con una conseguente gravidanza fortemente desiderata. Che senso ha in questi casi il parto in anonimato? L’art. 9 della legge 40 ha lo scopo di proteggere il figlio anche quando esso è stato concepito in violazione della legge e cioè mediante fecondazione eterologa. In tal caso egli è considerato legittimo nonostante la violazione della legge da parte dei genitori. Ecco perché il primo comma del medesimo articolo vieta l’azione di disconoscimento della paternità o maternità in deroga alle regole generali del Codice civile. In effetti, l’azione di disconoscimento mira ad accertare la verità della generazione contro la diversa apparenza giuridica, ma, nel caso della Pma eterologa, in difesa del figlio la legge attribuisce prevalenza alla verità della volontà dei genitori, nonostante la non verità della generazione biologica. Queste considerazioni mostrano la ragionevolezza del testo legislativo dell’art. 9, che non ha niente a che vedere con l’impianto complessivo della legge; ma i nemici della legge utilizzano irragionevolmente tutto perché essa, per quanto in modo insufficiente, difende la vita nascente.