Opinioni

Una nuova speranza per il Medioriente. Da tre debolezze una forza ai colloqui di pace

Luigi Geninazzi sabato 21 agosto 2010
Provaci ancora, Sam. Forse nulla più del titolo del vecchio film di Woody Allen dà bene l’idea dei ripetuti sforzi compiuti dagli Stati Uniti per costringere a sedersi attorno allo stesso tavolo gli eterni duellanti del Medio Oriente. Adesso è la volta del presidente Obama che ha convocato a Washington per il 2 settembre il premier israeliano Netanyahu ed il presidente dell’Autorità nazionale palestinese Abu Mazen per far ripartire i negoziati diretti che si erano interrotti venti mesi fa. L’ultimo tentativo di rilanciare il processo di pace era legato al nome di Annapolis, la piccola città del Maryland dove nel novembre del 2007 George W. Bush diede il via alla Conferenza internazionale per il Medio Oriente che mirava ad un accordo entro due anni. L’obiettivo dei prossimi colloqui, secondo quanto annunciato ieri dal segretario di Stato Hillary Clinton, è ancora più ambizioso, limitando a un anno il periodo di tempo per definire "lo status finale" tra Israele e Palestina. Difficoltà? "Ce ne sono state in passato, ce ne saranno anche in futuro…", ha ammesso il capo della diplomazia americana.Noi possiamo permetterci di essere meno diplomatici: diciamo la verità, più si conosce la storia recente e più si fa fatica a non cedere allo scetticismo. L’iniziativa di Barack Obama arriva a dieci anni dal vertice di Camp David che accese grandi speranze per uno storico accordo giudicato a portata di mano e sfumato all’ultimo minuto per la questione insormontabile dello status di Gerusalemme. C’era un clima di grande ottimismo, le televisioni ci mostravano le immagini sorprendenti di Arafat che si abbracciava e scherzava con Barak sotto lo sguardo soddisfatto di Clinton. Se loro hanno fallito, quali possibilità di successo avranno i colloqui tra Netanyahu ed Abu Mazen, segnati da reciproca antipatia e diffidenza, sotto l’egida di un Obama campione d’indecisionismo?Mentre nell’estate del 2000 i protagonisti del negoziato apparivano forti e sicuri di loro stessi, oggi ci troviamo di fronte a leader accomunati da una grande debolezza. Barack Obama è in caduta libera nei sondaggi, viene sempre più contestato dagli stessi esponenti del partito democratico e teme di essere sonoramente sconfitto nelle prossime elezioni di medio termine. Abu Mazen è un presidente dimezzato che ha perso il controllo su Gaza, in mano ad Hamas, e vede la sua autorità diminuire a favore del premier palestinese Fayad, manager efficiente che sta rimettendo in sesto l’economia in Cisgiordania. Dal canto suo Benjamin Netanyahu si ritrova alla guida di un governo paralizzato dalle divisioni interne, pressato dalle richieste oltranziste dei coloni sul piano interno e sempre più in difficoltà sul piano internazionale dopo l’attacco sanguinoso alla nave dei pacifisti turchi. Può sembrare paradossale ma l’insieme di queste tre debolezze potrebbe dare forza ai colloqui di pace che si apriranno tra due settimane a Washington. Nessuno degli interlocutori ci crede più di tanto, la sfiducia è palpabile. Al tempo stesso né il presidente dell’Anp né il premier israeliano possono permettersi di buttare all’aria il tavolo delle trattative perché aggraverebbero soltanto la propria debolezza. Si dirà: non sono certo le condizioni ideali per affrontare il negoziato. È vero, ma come disse una volta Ben Gurion, il fondatore dello Stato ebraico, «un politico non può essere realista se non crede ai miracoli».