Opinioni

L’accusa collega solidarietà e profitto. «Mare Jonio» la domanda errata nell'inchiesta

Stefano Zirulia venerdì 5 marzo 2021

Caro direttore, «L’hanno fatto per un ritorno economico, non per solidarietà». Possono riassumersi così le dure accuse che serpeggiano da qualche giorno nei confronti all’equipaggio della nave 'Mare Jonio', in relazione al trasporto a Pozzallo di 27 migranti tratti in salvo dal mercantile danese Etienne.

La Procura di Ragusa ha infatti aperto un fascicolo per favoreggiamento dell’immigrazione irregolare sostenendo di avere le prove che l’operazione di trasbordo dei naufraghi dalla nave danese a quella italiana si sia svolta sulla base di un accordo commerciale, in virtù del quale la società armatrice della prima avrebbe versato un’ingente somma quale corrispettivo per il servizio reso dalla seconda. Fermo restando che l’accertamento di ciò che è davvero accaduto dovrà avvenire in sede processuale, l’enfasi che è stata posta sui profili economici appare obiettivamente sproporzionata, e finisce per distrarre l’attenzione dai veri interrogativi che attraversano la vicenda. In Italia, infatti, la responsabilità penale per il reato di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare non dipende dall’avere agito per scopo di lucro; dipende, più semplicemente, dall’avere illegalmente trasportato in Italia stranieri senza documenti (articolo 12 del Testo Unico Immigrazione).

Se il fatto è commesso per ricavarne un profitto, scatta una circostanza aggravante, che prevede pene ancora più severe; ma la punibilità sussiste anche in assenza di scopo di lucro. Del resto, è proprio per questa ragione che è nato il problema del 'reato di solidarietà': la legge italiana, per come è testualmente formulata, porta sul banco degli imputati tanto chi agisce per un ritorno economico, quanto chi agisce per finalità altruistiche. Sennonché, una recente sentenza della Corte di Cassazione (quella che ha dichiarato illegittimo l’arresto di Carola Rackete all’inizio del 2020), ha finalmente chiarito come l’articolo 12 del Testo Unico Immigrazione non sia, per così dire, un corpo isolato; ma debba essere interpretato e applicato dai giudici tenendo conto del quadro giuridico nel quale si inserisce, compreso il diritto internazionale che disciplina le operazioni di soccorso in mare. Ecco allora, ha spiegato la Corte, che non può ritenersi 'illegale' il trasporto in Italia di naufraghi, nemmeno quando sono stranieri privi di documenti: ciò in quanto il dovere di soccorrere vite umane in pericolo, sancito dalle Convenzioni sul diritto del mare (Unclos, Sar, Solas), prevale sull’interesse statale alla protezione delle frontiere.

Ma se è così – e qui torniamo alla vicenda odierna – allora la partita della responsabilità penale dell’equipaggio della 'Mare Jonio' non si gioca sul piano del (presunto) profitto, bensì, ancora una volta, dell’adempimento del dovere di soccorso in mare. E siccome tale dovere comprende pacificamente non solo il recupero dei naufraghi, ma anche il loro successivo sbarco in un porto sicuro, allora la domanda che occorre porsi è se l’intervento dell’equipaggio di Mediterranea, consistito nel prendere in carico i 27 migranti, sia servito a sbloccare una situazione di stallo che stava provocando un ingiustificato ritardo nello sbarco.

Stando alla informazioni disponibili, pare proprio che la risposta sia affermativa: i migranti si trovavano a bordo della 'Etienne' da ben 37 giorni (un periodo ben più lungo, per intenderci, di quelli che hanno innescato le indagini per sequestro di persona nei casi 'Gregoretti' e 'Open Arms'), le loro condizioni psicofisiche stavano progressivamente deteriorando e le loro reiterate richieste d’aiuto erano rimaste inascoltate. A fronte dell’inerzia delle autorità, l’intervento della 'Mare Jonio' non ha fatto altro che garantire che le persone fossero trasportate in un porto sicuro 'in tempi ragionevoli', come richiesto dalla Convenzione di Amburgo, che l’Italia ha ratificato.

Esattamente come nel caso Rackete, anche qui l’adempimento del dovere comporta il venire meno del reato; e parlare di aggravante del profitto in assenza del favoreggiamento è come pensare di arredare una casa che non ha ancora il tetto e i muri: un nonsenso. La Procura di Ragusa ne è certamente consapevole; ma sarebbe opportuno che lo fosse anche il dibattito che accompagna questa delicata vicenda.

Giurista Università Statale di Milano