Opinioni

Il direttore risponde. Marco e la provvidenza speciale

sabato 29 ottobre 2011
Caro direttore,
sono un romagnolo e non posso tacere dopo quanto si è detto sui giovani e sulla velocità. Sono un romagnolo e non sono potuto andare al funerale del bambino più veloce del mondo. Per mestiere ho visto molti funerali di bambini, ma non questo. Ho saputo della sua morte da YouTube. Trentotto anni fa, il 20 maggio del 1973, mentre nell’aia correvo come un matto dietro alle galline di mia nonna, si disputava a Monza la gara delle 250. Improvvisamente dalla radio della Cinquecento uscì la notizia della morte di Renzo Pasolini, un altro motociclista romagnolo. Il "Paso" era partito come un pazzo, alla prima curva era in testa davanti a tutti, compreso l’asso finlandese Jarno Saarineen. Cadde rimanendo in pista, Saarineen gli finì addosso. Poi l’ammucchiata di bolidi gementi. Pasolini morì, Saarineen venne decapitato dalle ruote di un sopravvenente. Il funerale a Rimini. Arrivavo appena alla bara alzata sul catafalco; quelle scarpe stranamente lucide ed eleganti puntate in alto, e quel casco vuoto lì di fianco. Pasolini aveva gli occhiali scuri, tristi come quelli di Pier Paolo, l’omonimo poeta anche lui schiacciato da ruote. Il "Paso" certamente era un poeta senza parole, malinconico di tutti i secondi posti dietro a Giacomo Agostini. Marco, "Sic", è morto nella gara dopo un secondo posto. Non ha lasciato andare la moto, è morto in sella, come un cavaliere col suo destriero davanti al baratro. Pasolini e Simoncelli sono stati forse traditi dalla foga smisurata di arrivare più in alto. Romagnoli di blasone non eccelso, ma d’infinita generosità e talento. In questi giorni non avrei voluto sentir dire «fermiamo le corse», oppure «troppa velocità». Non avrei voluto sentir dire «non si può morire a 24 anni». Sono cose abbastanza banali. Muoiono bambini che non hanno mai avuto l’aria in faccia, senza capelli, e vene come piste segnate dagli aghi. Cosa dovrebbero dire, poi, i genitori dei quindicenni quasi fermi sul motorino o in bicicletta schiacciati dagli autobus? Il babbo abbracciava sempre Marco, prima delle gare. Tanti che perdono i figli in un sabato notte non riescono a farlo. Non credo sia questo il momento di fare l’elogio della lentezza. Le cose più sagge le ho sentite dai genitori di "Sic": Marco ha vissuto. Come candela che arde in fretta, la sua luce è stata breve, ma che luce. I suoi 24 anni valgono mille. Centinaia di foto del suo sorriso sono vive e lo resteranno. Quindi, se questa dev’essere l’occasione per fare della morale, facciamo pure l’elogio della sicurezza, ma qui in via Mazzini sotto casa, ora. Sistemiamo l’asfalto con quelle buche che come mine fanno saltare moto e bici, attrezziamo ciclabili vere. E poi "tolleranza zero" per alcol e droghe in chi guida. Questo vorrei sentir dire quando muore un centauro di 24 anni a viso scoperto. Non occorre fermare un bel niente; abbiamo bisogno anche di questi miti non per imitarne l’imprudenza o la sfortuna, ma per trarne la voglia di vivere e il coraggio di andare sulla strada a incontrare la vita, a sorridergli in faccia . Dicono che Simoncelli amasse Leopardi (…pria che l’erbe inaridisse il verno…) , abbiamo evocato Pasolini. Bene, scomodiamo anche un poeta come Shakespeare: «C’è una provvidenza speciale nella morte di un passero. Se è ora, non sarà domani. Se non sarà domani, sarà ora… essere pronti è tutto. Poiché nessun uomo sa qualcosa di ciò che lascia, che importa lasciare prima del tempo. Sia così». Come Amleto, bisogna morire per dimostrare di aver vissuto. Anche quando abbiamo un casco in mano, dentro non si vede ma c’è un teschio, come nella tragedia. Marco è morto una volta soltanto. Meglio una domenica a Sepang che un martedì in Italia sotto il fango. O in una stanza lentamente con un monitor acceso. È stato ora e non sarà domani. La terra ti sia lieve, se riesce a starti dietro, Marco.
Gabriele Bronzetti, Bologna
 
Ho amici medici e so che essere medico, come lei è, caro dottor Bronzetti, non significa solo auscultare e tastare l’umanità, ma frequentarne le fragilità e gli scoramenti e scovare in essi straordinaria normalità, tenere e rigorose dedizioni, sorprendenti e consolanti grandezze. Amare la poesia, poi, credo voglia dire essere disposti a leggere la vita e la morte senza reticenze, essere capaci di riconoscere ogni «provvidenza speciale» e di farsi toccare nel profondo dei giorni da essa. Ho avuto e ho amici poeti (e non necessariamente perché li abbia conosciuti personalmente tutti…) e so, proprio come lei, che la poesia è anche medicina, piana o vertiginosa cura. Ho amici romagnoli, dei quali conosco bene la schiettezza e la fede in Dio. Mi piace trovare nella sua lettera in morte di un giovane campione tutta questa amicizia. E molto di più.