Opinioni

Ha sbagliato, ha chiesto scusa,pagherà. Mano tesa a Schwazer, il campione fragile

Massimiliano Castellani mercoledì 8 agosto 2012
​C'è Usain, il fenomeno Bolt, e c’è il campione “usa e getta”. E a quest’ultima categoria, da sempre la più affollata, adesso appartiene anche Alex Schwazer. Il ragazzo, dolce come il pinguì di cioccolato che pubblicizzava (contratto subito “strappato” dalla Kinder), sta vivendo ore amare. Alex è solo nella sua piccola Calice. Si è chiuso con il suo dolore senza consolazione in una delle 31 case del borgo, che mormora, com’è naturale che sia. Il bravo ragazzo, tutto marcia, Carolina (la fidanzata campionessa di pattinaggio, la Kostner) e famiglia, è caduto nella trappola della droga dello sport, il doping. Tre lettere avvelenate, Epo, la stessa cicuta che ha inghiottito Marco Pantani, finito anzitempo nel “mondo dei più”, assieme a un’intera generazione di fenomeni che si era illusa di poter doppiare in velocità perfino la morte. «L’ho fatto per andare più forte», ha confessato un ingenuo e depresso Alex che nel suo mondo adesso passa non solo per l’appestato, «la mela Marcia», ma addirittura per il «cretino» che ha ammesso immediatamente la colpa. Ma come, neppure un tentativo di difesa? Il classico gesto, anti fair play, dell’atleta beccato con la siringa in mano, ma che anche dinanzi all’evidenza nega e grida: «Mai preso niente in vita mia, lo giuro». Alex è cresciuto in una famiglia che gli ha insegnato il rispetto, prima di tutto per la verità, e non ce la faceva più a tenersi dentro questo segreto che gli bruciava l’anima e che forse ora manderà in fumo un pezzo del suo futuro. Alex sta male, ma un po’ di quel dolore dovremmo provarlo tutti, specialmente quelli che fino a ieri erano orgogliosi di professarsi suoi amici, i primi tifosi del campionissimo. Invece, un attimo dopo il suo autodafé, erano tutti lì, con il fucile puntato come un Campriani, pronti ad annientare quello che a loro dire avrebbe «sporcato» l’intero sport italiano. Piano, signori. Soprattutto voi, vetusti ed eterni dirigenti dello sport italiano: quello che avete di fronte è un ragazzo di 27 anni, solo, triste e che, in preda allo sconforto, si sente addirittura finale («Sono finito»). Alex ha sbagliato, certo, ma a sentire un popolo di giudici improvvisati viene davvero il sospetto che abbia fatto probabilmente quello che nel Paese dell’omertà non andrebbe fatto mai: autodenunciarsi. Nel Paese senza memoria nessuno ricorda più che quattro anni fa quello stesso ragazzo, stremato come un Dorando Pietri, andava a conquistare l’oro olimpico della marcia sotto la muraglia cinese. Ora, nei suoi confronti, tutti sanno soltanto alzare il muro dell’indifferenza e del disprezzo. Ma prima che tradire noi e le nostre menti che si nutrono di apparenze e falsi miti, Alex ha tradito se stesso e solo per questo meriterebbe un po’ di umana comprensione, non una condanna senza appello. Alex si è ritrovato in un gioco più grande di lui, in cui è finita un’intera famiglia, a cominciare da suo padre che con grande umiltà ammette: «È anche colpa mia, non ho capito che mio figlio stava male». Soffriva da tempo Schwazer, perché lo sport moderno risponde a una legge soltanto: vincere a ogni costo. Sì, anche al prezzo di ingannare, ricorrendo a quei malefici “aiutini” che si comprano a buon mercato perfino su internet o andando nello studio medico del Dulcamara che ti promette l’elisir di lunga vita sportiva. La scorciatoia per il successo è la via più battuta, a cominciare dai piccoli atleti che sognano di arrivare fin dove è arrivato il grande Alex, il campione. Alex è un campione sconfitto, forse per sempre, ma che ha il diritto di riprendersi subito la sua vita. Ha commesso l’errore più grave per un atleta, ma ha anche chiesto scusa a 60 milioni di italiani e a tutto il popolo olimpico che lo aspettava, magari per vederlo vincere ancora. Chi ama davvero lo sport, allora, non abbandoni Schwazer. Lo aiuti (come fa don Marco Pozza) e lo sostenga ancora di più adesso che è fuori dai Giochi, perché possa tornare a marciare nel Paese reale che è popolato più da sconfitti e da uomini che neanche quando uccidono – quasi mai – sanno ammettere: sono io il colpevole.