Opinioni

Per dare mani alla speranza. L'ascolto della Chiesa della nostra realtà

Francesco Ognibene venerdì 24 gennaio 2020

«Questo è il tempo della speranza». Va bene che il Vangelo insegna ad andare controcorrente, ma la lettura che i vescovi italiani offrono al termine del primo Consiglio permanente della Cei nel 2020 sembra andare in senso opposto all’analisi che il Censis ha recentemente offerto della nebulosa fase attraversata dal Paese. Nella sua abituale sintesi per parole chiave, il principale osservatorio dello stato d’animo degli italiani aveva scelto infatti l’«incertezza» combinata con sentimenti di paura e pessimismo, esito inevitabile di un biennio dominato dapprima dal «rancore» e poi addirittura dalla «cattiveria», intesa come istinto di difendere il proprio spazio avvertendo gli altri come un’insidia.

In questo quadro non proprio incoraggiante, ecco invece la Chiesa parlare di speranza, non intendendola però come il generico auspicio che presto possa spuntare il sole di tempi migliori: «Su un terreno fertile il nuovo deve ancora compiersi – dice l’organismo di coordinamento dell’episcopato italiano al termine di tre giorni di lavori –, a volte a fatica, ma, pur nelle sue criticità, questo è senz’altro il tempo della speranza». Una considerazione che è addirittura promossa al rango di «certezza»: com’è possibile? Non abbiamo forse la sensazione di muoverci come a tentoni dentro un presente del quale sfuggono i tratti autentici e il possibile approdo? Politica, economia, lavoro, il domani nostro e dei nostri figli sembrano avvolti da una caligine che sfuma i contorni e rende incerta la stessa comprensione dei fenomeni dai quali è attraversata questa epoca. Dov’è allora «il tempo della speranza»?

Per chiarirlo la Chiesa italiana premette che si tratta di una considerazione maturata proprio dall’ascolto della gente, più precisamente nel cogliere «le domande che salgono dai territori», dove la rete delle comunità cristiane è ancora e sempre un avamposto senza eguali per ramificazione e sensibilità. A cambiare non è la foto di una comunità nazionale a corto di fiato, ma lo sguardo e la parola con cui la Chiesa invita a far strada insieme, proponendosi come "casa" dove prende corpo il futuro – personale e di tutti – su un’architrave di valori portanti.

Dentro il problema, il cristiano vede non una sentenza ma una domanda, un’inquietudine, una ricerca, un invito a cercare insieme la rotta che porta fuori dal deserto, più che la presa d’atto sconsolata che le cose non possono andare diversamente. La speranza attrezza l’uomo a sentirsi progettista e costruttore piuttosto che gregario diffidente, o spettatore timoroso. È tutta un’altra storia.
Ma cosa rende persuasi di poter incidere su trend che sembrano sormontarci sempre più, per dimensioni e portata?

La fede cristiana è scuola di realismo: è con i fatti che ci spinge a fare i conti, ovvero con le circostanze piene di spigoli e fango sperimentate dall’umanità concreta di ogni tempo, dove la Chiesa si sente inviata come nel giorno in cui risuonò il primo mandato «sino ai confini della terra».

È lì che sa di dover portare il suo sguardo sempre nuovo, di voler «condividere la gioia del Vangelo», secondo l’immagine su cui si stanno concentrando gli Orientamenti pastorali 2020-2025 per tutta la Chiesa italiana: non per caso un orizzonte quinquennale e non più sulla scala del decennio, segno della realistica accettazione di tempi accelerati, quasi frenetici, anche disorientanti e, insieme, assetati di domani. Per 'starci dentro', come l’anima nel corpo, il cristiano deve conoscere bene ciò che i vescovi definiscono «il contesto odierno», proprio quello che «resta segnato da individualismo e secolarismo», in modo da «recuperare tematiche sociali ed ecclesiali mai marginali», anzitutto però scrollandosi di dosso la «fatica diffusa nel comprendere, come dice il Papa, che 'non siamo più in un regime di cristianità'».

È l’esigenza della «prossimità» alla persona umana così com’è, testimoniata in primis dai sacerdoti verso i quali i vescovi esprimono «una vicinanza autentica » perché «non si sentano schiacciati dalle polarizzazioni » che insidiano anche l’esperienza cristiana. Si comincia dalle ferite, una scelta documentata sia dalla rete ecclesiale per la tutela dei minori, che si sta completando a un anno appena dalla costituzione del Servizio nazionale, sia dal lungo percorso per dar vita all’incontro di riflessione e spiritualità per la pace nel Mediterraneo, tra un mese a Bari. Perché la gioia del Vangelo passa dalla cruna della realtà: è solo così che la speranza avrà braccia e mani, e vestirà l’abito della nostra vita.