Opinioni

La sentenza Cedu sulla violenza domestica. Mai solo sulla carta la difesa dal male

Mario Chiavario venerdì 3 marzo 2017

Ecco un esempio di una giurisprudenza 'evolutiva' che, per le conclusioni cui ha condotto, non può far piacere, ma che, per le affermazioni di principio che la ispirano, merita pieno consenso. È il caso della sentenza con cui l’Italia è stata ieri condannata dalla Corte europea dei diritti umani per la gestione di una violenza domestica sfociata in tragedia. Qui, va subito detto, non c’è infatti stato – come capita non di rado – il sovrapporsi dell’arbitrio di un giudice, nazionale o sovranazionale, a precise scelte di coloro cui spetta il compito di dettare norme di legge (internazionale, costituzionale o d’altro genere).

No, vi si coglie piuttosto lo sviluppo del meritorio sforzo che ormai da lunga data vien fatto, almeno sotto certi profili, per trarre il massimo di effetti dalla chiara enunciazione di princìpi fondamentalissimi, che la Convenzione europea dei diritti dell’uomo esprime a tutela del diritto alla vita, del divieto di trattamenti inumani, dell’uguaglianza tra le persone: gli Stati ne restano solo vincolati ad astenersi dal perpetrare essi stessi – tramite i loro rappresentanti diretti – crimini che comportino morte o sofferenze (o anche discriminazioni, specialmente a danno dei soggetti più deboli), ma altresì sono impegnati a prevenire, per quanto sta in loro potere, comportamenti di privati che conducano ai medesimi risultati. E, poi, a evitare ingiustificate impunità. Il caso deciso in questi giorni a Strasburgo ha riguardato una vicenda costellata da parecchi episodi di maltrattamenti subìti da una donna a opera del marito e conclusasi con un’ultima, inaudita esplosione di brutalità, fino all’uccisione, a opera dell’uomo, del figlio della coppia e al tentativo di omicidio nei confronti della donna medesima, comunque gravemente ferita.

Il drammatico epilogo portò, in Italia, a una condanna del marito violento all’ergastolo; ma non è su quest’aspetto che, giustamente, si è soffermata la Corte europea. È invece sull’intero susseguirsi di una serie di violenze anteriori, e sulle carenze nelle 'risposte' dello Stato, che i giudici di Strasburgo hanno portato l’attenzione, non trascurando neppure certi dati chiaroscurali quanto alla ricostruzione dei fatti, ma non esimendosi tuttavia da una severa censura globale. Indiscutibili, del resto, alcuni aspetti sconcertanti venuti alla luce, e in particolare il totale 'silenzio' dello Stato, durante sette lunghi mesi successivi all’iniziativa assunta da un pubblico ministero, ma rimasta sulla carta, perché si compissero effettivi accertamenti su una denuncia che la donna aveva presentato: il che ha potuto anche spiegare come causate da sfiducia – ed è la stessa sentenza a sottolinearlo – talune affermazioni parzialmente ritrattatorie da lei poi rilasciate in occasione di un’ulteriore presa di contatto con le autorità giudiziarie e di polizia.

C’è da sperare che la sentenza faccia riflettere e operare per dare maggiore concretezza ai conclamati propositi di un sempre maggiore sforzo di contrasto al 'femminicidio' e alle altre violenze (più o meno 'domestiche') su donne e minori. Troppo facile, però, l’illusione di scaricarsi la coscienza con l’opporre una 'faccia feroce' ufficiale alla ferocia di partner o padri, talora (seppur non sempre) vittime, a loro volta, di un degrado umano e sociale mascherato o no dall’ossequio a vecchi o nuovi idoli. Non è innalzando sempre più il livello delle pene che quella ferocia si combatte ragionevolmente ed efficacemente (sebbene non ci si possa trattenere da un gesto di sconsolata incredulità al leggere che per una delle aggressioni accertate in itinere' il marito violento era stato condannato a una semplice, anche se ingente, pena pecuniaria …).

D’altronde, e con riserva di ogni valutazione specifica sul comportamento di singoli funzionari (che solo una più dettagliata conoscenza dei fatti potrebbe consentire) non è neppure gettando la croce addosso a qualcuno tra i soggetti pubblici da cui la Repubblica è stata impersonata – e in particolare alle forze di polizia – che si può trarre sin d’ora qualcosa di positivo dal giudizio venuto da Strasburgo. Sono note le carenze di personale a disposizione, né può sfuggire che, in certe situazioni e agli occhi di chi ha tante altre gatte da pelare, la ricerca di soluzioni apparentemente conciliative possa sembrare, e magari essere, di buonsenso. E comunque l’imperativo più pressante è, ancora una volta, quello di non far mancare 'a monte' gli strumenti per aiutare le persone – e in particolare donne e minori – esposte a violenze, intensificando risorse, materiali e soprattutto personali, per garantire, a chi ne ha bisogno, punti di riferimento costanti e affidabili per professionalità e disponibilità. Insomma: non tanto manette, ma informazioni e garanzia di volti e ambienti davvero capaci di offrire percorsi di riscatto e di speranza.