Opinioni

Mai populismo giudiziario. Alti e saggi auspici e un grave rischio

Paolo Borgna martedì 9 aprile 2019

Hanno lasciato il segno, nei giorni scorsi, due auspici formulati, in circostanze molto diverse, dal presidente Sergio Mattarella e dal giudice della Corte Costituzionale Giuliano Amato. Il Capo dello Stato, promulgando la legge che istituisce la Commissione d’inchiesta sulle banche, ha sentito il bisogno di sottolineare, con una lettera ai presidenti di Camera e Senato, la necessità che si eviti il rischio che l’ampio mandato conferito alla Commissione non sfoci in un controllo sull’attività creditizia o in indebite istruzioni della politica a Bankitalia o alla Bce.

Nelle stesse ore, Giuliano Amato, in una circostanza molto meno formale (un’intervista al "Venerdì" di "Repubblica"), invitava i cittadini a «non lasciare sola» la Corte Costituzionale. E spiegava il senso di questo invito: in tutto il mondo le Corti Costituzionali adottano «decisioni che per definizione contrastano le decisioni adottate dalla maggioranza politica». Le loro, pertanto, sono necessariamente decisioni che tutelano le minoranze, soprattutto «sul terreno dei diritti umani perché qui si determina una naturale diversità di ruolo tra i Parlamenti e le Corti».

Colpisce che questi moniti giungano da due uomini che, provenendo da ruoli accademici, rappresentano oggi il massimo livello nelle nostre istituzioni di garanzia; ma, in passato, hanno a lungo praticato la politica (entrambi sono stati parlamentari e ministri). E della politica conoscono grandezza, pulsioni e debolezze.

Si intravede, sullo sfondo delle loro parole, il timore per la presente fase storica europea, caratterizzata da populismi che rivendicano un rapporto diretto, privo di intermediazioni, fra capi politici e popolo. E dunque mal tollerano il ruolo delle istituzioni che tutelano i valori fondanti la Repubblica, sottraendoli alla disponibilità delle maggioranze politiche del momento.

C’è la preoccupazione verso un populismo politico, capace di captare i disagi reali dei ceti deboli nell’era della globalizzazione, ma incapace di dare reali risposte positive a questi disagi. C’è inoltre, sul fronte della giustizia, la preoccupazione per un populismo giudiziario che – facendo leva su obiettive gravi carenze del nostro sistema – alimenta parole d’ordine assai diffuse tra i cittadini: bisogno immediato della condanna; utilizzo del processo come risposta demagogica all’allarme sociale e come anticipazione della pena; lo "spirito del popolo" che nella celebrazione del processo dovrebbe andare oltre la Legge. Sono ingredienti ben noti nell’insorgenza di ogni sistema totalitario. E che, coniugandosi con il populismo politico, snaturano la tipica funzione di equilibrio del giudice.

Senza dimenticare che la storia del Novecento ci insegna che, quasi sempre, chi ha fomentato queste pulsioni è poi stato vittima, qualche anno dopo, di feroci giustizie sommarie. La preoccupazione di un’indistinta e vaga missione risanatrice e purificatrice della funzione del giudice è riecheggiata, pochi giorni fa, nelle parole di Sergio Mattarella ai neo magistrati: «La magistratura non deve mai farsi suggestionare dal clamore mediatico dei processi, non deve farsi condizionare da spinte emotive evocate da un presunto e indistinto sentimento popolare» perché i magistrati «non devono rispondere all’opinione corrente e a correnti di opinione, ma solo alla Legge».

Non saremmo però fedeli interpreti del monito del Presidente se ci limitassimo ad additare con scandalo i frutti avvelenati che ci vengono proposti; senza adoperarci, con intelligenza e costanza, alla soluzione dei problemi reali che gonfiano le vele di chi quei frutti propone. Un piccolo recente libro di Loris Campetti ('Ma come fanno gli operai', Manni ed.) – descrivendo il cambiamento culturale degli operai delle grandi fabbriche del Nord – ci ricorda quali sono questi problemi: precarizzazione del lavoro; microcriminalità diffusa nei quartieri popolari delle grandi città; necessità di un’accoglienza dei migranti più generosa di quanto oggi non sia, ma sicuramente più ordinata; una giustizia ancorata a solide garanzie, ma con tempi meno scandalosamente lunghi.

Le soluzioni a tutti questi problemi ci sono: il nostro tessuto civile e sociale ha in sé le competenze necessarie per metterle a punto. Perché questo Paese e le sue istituzioni sono ricchi di donne e uomini che ogni giorno, senza urlare, esercitano la pratica di un umile ma proficuo e solidale riformismo. Si tratta solo di organizzarli e di non disperdere il loro patrimonio di conoscenze e di capacità.