Opinioni

Crisi delle aziende, scelte e dinamiche partecipative. Mai i lavoratori sono «accessori»

Elio Sgreccia mercoledì 25 settembre 2013
Negli ultimi mesi nel vortice caotico della crisi economica abbiamo avuto come la sensazione di un disfacimento di una quantità allarmante di industrie e di aziende: nel dilemma tragico tra la minaccia alla salute e la perdita del posto di lavoro, tra fallimenti, licenziamenti massicci e delocalizzazioni... Per di più ci si misura ancora con una riforma del rapporto di lavoro che non riesce a risolvere il problema della rappresentatività nella firma dei contratti né a collegare le responsabilità complementari del capitale e del lavoro. E in questo quadro la sospirata "ripresa" si annunzia lenta e la resistenza delle industrie più vitali sembra eroica e sempre in bilico. Mi ha perciò colpito l’annuncio di un fatto singolare avvenuto nei pressi di Udine, dove il proprietario di un’azienda è riuscito a imboccare una strada singolare: l’accordo con gli operai i quali accettavano una temporanea e parziale riduzione nello stipendio per superare la crisi e compiere uno sforzo congiunto per la salvezza dell’azienda e del futuro posto di lavoro. Ma c’è qualcuno, pare, che è insorto giudicando "illegale" tale sforzo di salvataggio. E proprio questo fatto, che, pure, nella singolarità non sono in grado di valutare in tutti i particolari, mi induce a scrivere in favore di un principio conosciuto nella Dottrina sociale della Chiesa: la partecipazione dei lavoratori nella vita e nei destini delle aziende. Un principio che ha le sue radici negli scritti di Leone XIII e più da vicino nelle encicliche di Giovanni Paolo II. Il Compendio della Dsc (nel n. 281) scrive: «Il rapporto tra lavoro e capitale trova espressione anche attraverso la partecipazione dei lavoratori alla proprietà, alla sua gestione e ai suoi frutti». E questa affermazione, viene supportata da un passo della Laborem exercens di Giovanni Paolo II che così si esprime: «Ognuno, in base al proprio lavoro, abbia il proprio titolo di considerarsi al tempo stesso "comproprietario" del grande banco di lavoro, al quale s’impegna insieme con tutti. E una via verso tale traguardo – continua il testo – potrebbe essere quella di associare, per quanto è possibile, il lavoro alla proprietà del capitale e di dar vita ad una ricca gamma di corpi intermedi a finalità economiche, sociali e culturali: corpi che godono di una effettiva autonomia nei confronti dei pubblici poteri, che perseguono i loro specifici obiettivi in rapporti di una collaborazione vicendevole, subordinatamente alle esigenze del bene comune, e che presentino forma e sostanza di una viva comunità, cioè che in essi i rispettivi membri siano considerati e trattati come persone e stimolati a prendere parte attiva alla loro vita». A monte di tali indicazioni sta il principio, richiamato nella stessa enciclica (n.12), in base al quale il lavoro ha una priorità intrinseca rispetto al capitale; un principio – spiega il testo – che riguarda il processo stesso di produzione in rapporto al quale il lavoro è sempre una causa efficiente primaria, mentre il "capitale", essendo l’insieme dei mezzi di produzione, rimane solo uno strumento o la causa strumentale. Si tratta di una verità evidente che risulta da tutta la esperienza storica dell’uomo... Ed «esso appartiene al patrimonio stabile della dottrina della Chiesa» (n. 12). Nello stesso documento si afferma che tra lavoro e capitale ci deve essere complementarietà ed è la stessa logica intrinseca al processo produttivo a dimostrare la necessità della loro reciproca compenetrazione e la urgenza di dar vita a sistemi economici in cui l’autonomia tra lavoro e capitale venga superata (n.13). La ricchezza etica di questi insegnamenti, che tendono a valorizzare ogni persona, è tale che autorizza a considerarli una profezia per possibili graduali sviluppi. E induce a riflettere su quanto carente o intimidito sia l’impegno del mondo cattolico in questo campo. Perché non promuovere ricerche su quanto è stato già avviato e sperimentato in certi altri Paesi a sviluppo industriale avanzato? Perché non avviare degli studi con équipe di specialisti per andare oltre le conflittualità in cui vari "poteri" tendono a mantenere ingessata la situazione? Per intanto, però, bisogna pur dire che alla luce delle verità etiche richiamate non si dovrebbe autorizzare, ad esempio, la delocalizzazione di un’industria senza aver interpellato su possibili soluzioni alternative i lavoratori stessi, che non possono essere considerati semplici "accessori" della fabbrica. È l’ora di prendere sul serio l’affermazione di Giovanni Paolo II (Centesimus Annus, n. 32) secondo la quale «l’integrale sviluppo della persona umana nel lavoro non contraddice, ma piuttosto favorisce la maggiore produttività ed efficacia del lavoro stesso».