Opinioni

Populismo giudiziario/1 . Magistrati, politica e potere all'inizio fu il «caso Montesi»

Paolo Borgna mercoledì 10 maggio 2017

Torvajanica 1953. Il punto del ritrovamento del cadavere di Wilma Montesi

All’inizio fu il 'caso Montesi'. Nato nell’aprile 1953 e concluso il 21 maggio 1957, quando il Tribunale di Venezia assolve Piero Piccioni dall’accusa di omicidio di Wilma Montesi. La vicenda viene spesso rievocata per il suo risvolto politico, che segna un crinale nella storia della Democrazia cristiana: la fine del padre di Piero, Attilio Piccioni, delfino di De Gasperi; l’ascesa definitiva di Amintore Fanfani (leader della corrente di sinistra 'Iniziativa democratica') che con il congresso di Napoli del giugno 1954 conquista la maggioranza e viene eletto segretario.

Ugualmente noti sono i contorni storici della morte di Wilma Montesi. L’11 aprile 1953, Wilma, ragazza ventunenne, viene trovata annegata sulla spiaggia di Torvajanica, a 40 chilometri a sud di Roma. Nessuno sa spiegare come mai quella giovane, che vive nel centro della capitale, possa essersi trovata su quel litorale. Si scopre che, poco sopra la spiaggia, c’è la tenuta di Capodicotta, di cui è titolare il marchese Ugo Montagna, amico di Piero Piccioni. Si diffondono pettegolezzi – sollevati dalla stampa satirica di destra e poi cavalcati da quella di sinistra – sul coinvolgimento, nella morte di Wilma, di Piero Piccioni che, agli occhi dei benpensanti di sponde opposte, ha tante caratteristiche che lo indicano come bersaglio ideale: è figlio del ministro degli Esteri e vicepresidente del Consiglio; frequenta le gente del cinema, i locali notturni e ha una relazione con la bellissima Alida Valli; soprattutto – colpa che appare imperdonabile – è un artista, un musicista di jazz, «la musica sincopata dei negri» (F. Grignetti, Il caso Montesi, Marsilio, 2006).

A un certo punto, nell’immaginario collettivo creato dai giornali, i pettegolezzi diventano prove: «troppe voci perché non ci sia qualcosa di vero», scrive il periodico comunista 'Vie Nuove' il 24 maggio (mancano quindici giorni alle elezioni politiche in cui si applicherà la nuova legge elettorale, con premio di maggioranza, voluta da De Gasperi). Un’ex fidanzata di Montagna – giovane scesa da Milano nella capitale per cercare notorietà nel mondo del cinema – rivela, dapprima a un giornalista, poi a un padre gesuita, infine a un pubblico ministero, i suoi sospetti che Montagna sia coinvolto nella morte di Wilma. Le indagini per la morte della ragazza, per tre volte aperte dalla Procura, vengono sempre archiviate.

Ma il caso rientra dalla finestra di un altro processo: quello per «diffusione di notizie false e tendenziose» contro un giornalista che, più esplicitamente di altri, aveva parlato di «festini», a base di sesso e droga, nella tenuta di Capocotta, ipotizzando che durante uno di questi Wilma fosse morta per abuso di sostanze, venendo poi trascinata sul litorale. Quel processo contro un giornalista per un reato a mezzo stampa, diventa – come spesso accade in simili casi – un controprocesso nei confronti di persone non presenti: Piccioni e Montagna.

Il Tribunale si trasforma in tribuna per la ribalta di aspiranti stelline del cinema: che, in realtà, una volta chiamate al processo, diranno mai nulla di rilevante ma che, fuori dall’aula, concedono interviste, vendono memorie, conquistano titoloni sui giornali. Venendo descritte dalla maggior parte della stampa come vittime e fustigatrici dei costumi. Il caso giudiziario si trasforma in «questione morale»: formula uscita dalla penna di Pietro Ingrao che, in un editoriale su 'l’Unità' del 7 febbraio 1954, denuncia l’emergere di un «torbido settore di affari equivoci, di traffici di droga, di corruzione, che sconfina nel mondo politico ufficiale». Lo scandalo morale diventa un randello nella lotta politica. Mentre 'Paese Sera' dedica ogni giorno un’intera pagina al caso, Pajetta conia, per i democristiani, la celebre definizione di «capocottari» e, parlando alla Camera, descrive Montagna come «il lenone che forniva donne ai gerarchi democristiani, dopo averle fornite ai fascisti e ai tedeschi».

L'onda di indignazione popolare ormai detta l’agenda dei Tribunali. I giudici – sollecitati da un comunicato del Consiglio dei ministri, che li invita a «fare chiarezza al più presto» – sospendono il processo in corso per il reato di «notizie false e tendenziose», in attesa dello sviluppo di nuove indagini sulla morte di Wilma. Ed ecco che, per la prima volta, si avanza uno 'strano soldato': il magistrato giustiziere e 'tutore della morale'. È il capo dei giudici istruttori di Roma cui viene affidata la nuova puntata del 'caso Montesi'. Ha 56 anni. È un uomo che nessuno conosce. Ma, nel giro di pochi giorni, la stampa racconta tutto di lui: è «grande e grosso» e «pesa centotrenta chili» (ma – notizia raffinata diffusa dai giornali – le fatiche dell’indagine gliene faranno perdere cinque).

È un «magistrato integerrimo». È vedovo, con tre figli. È benestante e «dispone di due domestiche e di una grossa auto personale». La stampa acclamante gli affida una missione: seguire la «pista della cocaina» e ribaltare le precedenti archiviazioni del caso, a costo di urtare «la suscettibilità di qualcuno». Ed è chiaro che quel «qualcuno» è il potere: la sua debolezza morale, gli 'intrecci torbidi' che lo sostengono.

A tal fine il giudice istruttore lavorerà alacremente e «nel massimo segreto». Il risultato sarà che ogni mossa del giudice e ogni suo verbale finiranno prontamente sui giornali. L’indagine è anche il campo di un palese scontro tra polizie: il giudice istruttore si avvale dei Carabinieri (allora molto vicini a Fanfani, dal luglio 1954 segretario della Dc), ma sarà sempre seguito e spiato dalla polizia (fedele a Scelba, presidente del Consiglio) che – grazie a una talpa interna al Tribunale – riferirà quotidianamente al Viminale. I ntorno al giudice nasce un gruppo specializzato di cronisti giudiziari, che seguono il magistrato, gli telefonano a casa, si confrontano tra loro, decidono insieme cosa pubblicare.

Stazionano nel corridoio di fronte all’ufficio del giudice; e «percepiscono» le frasi «pronunciate ad alta voce» dai testi, che poche ore dopo sono stampate sui giornali della sera. Le comunicazioni giudiziarie vengono anticipate a mezzo stampa. Durante le vacanze estive il giudice conduce una «vita ritiratissima», di cui, peraltro, i giornali riferiscono un diario dettagliato (il risveglio; il gioco alle bocce, la partecipazione al battesimo di un figlio di un fattore). Vengono pubblicate le sue foto: da quando era bambino fino alla prima toga.

E, nel luglio 1954, qualcuno ipotizza che il giudice possa salire al Quirinale, succedendo ad Einaudi il cui settennato scadrà nove mesi dopo. A settembre, il cinegiornale 'Settimana Incom' gli dedica il servizio di apertura. Negli stessi giorni, il giudice «riservatissimo» annuncia in un’intervista che «i mandati di cattura sono ormai predisposti». Scelba, di fronte a questa macroscopica violazione di legge del magistrato, vorrebbe che il ministro della Giustizia promuovesse l’azione disciplinare. Ma il Guardasigilli teme la popolarità del giudice: pur di non incolparlo, minaccia le dimissioni. Per non provocare una crisi di governo, anche Scelba fa marcia indietro.

A settembre il vecchio Attilio Piccioni si dimette da ministro degli Esteri per «stare accanto al figlio» Pietro. Due giorni dopo, il figlio e Montagna vengono catturati: il primo per l’omicidio colposo della Montesi, «aggravato dalla somministrazione di stupefacenti»; il secondo per favoreggiamento. I resoconti dei loro interrogatori sono immediatamente pubblicati da 'l’Unità' e 'Avanti!'. Secondo i comunisti, i mandati di cattura sono il segno di «una magistratura davvero indipendente». In realtà, a sorreggere l’accusa, non c’è uno straccio prova. Solo pettegolezzi di seconda e terza mano di personaggi ambigui e contraddittori in cerca di fama. L’unica cosa certa è l’alibi che già nove mesi prima Alida Valli (confermata da altri due testi) aveva fornito a Piccioni: la sera della morte di Wilma, Piero era con lei ad Amalfi, a casa di amici.

E infatti, due anni dopo, i giudici di Venezia, dove il processo è stato trasferito – accogliendo la richiesta dello stesso pm – assolvono Piccioni e Montagna per insussistenza di alcun «elemento anche solo indiziario». Anni dopo, il socialproletario Lucio Libertini ricorderà amaramente: «In passato ho diffamato per tornaconto politico […] Piccioni era uno dei padri della Dc […] Suo figlio fu accusato d’essere in qualche modo responsabile della morte della giovane Wilma Montesi […] Anch’io nei miei comizi picchiavo duro. […] Era un’infamia. Il ragazzo non c’entrava nulla. Non me lo sono mai perdonato». A sessant’anni di distanza, possiamo dire che il 'caso Montesi' ha avuto i suoi epigoni. (1 – continua)