Opinioni

Il senso di una festa che molti oggi tentano di irridere. Madri, un sì all’alterità​

Chiara Giaccardi domenica 12 maggio 2013
Festeggiare le madri è un gesto simbolico, che ci invita a ripensare con sguardo lucido le nuove forme del 'dato per scontato' culturale, del nuovo senso comune che consuma o irride i significati sui quali si fonda il nostro vivere insieme, producendo vuoto (e freddo, aggiungo, ma è una sensazione soggettiva che mi limito a esprimere). La madre è l’essere relazionale per eccellenza. Non una relazione estrinseca, fatta di ponti gettati verso altri nella speranza di superare la distanza tra gli 'io'. Ma una relazione intima, costitutiva, pur essendo fatta di ignoto. È infatti una relazione che può accadere grazie a un atto di libertà, a un 'sì' pronunciato, anche silenziosamente, a volte anche contro la ragionevolezza, e senza nessuna assicurazione sulle conseguenze e gli esiti. Un 'sì' che è un’apertura ad altro, ad altri, al futuro. Un fiat alla speranza.In un mondo dove ci si racconta che tutto è scelta (a cominciare dalla cosiddetta «identità di genere», un brand che costruiamo con gli elementi materiali e culturali a disposizione), e se ci accade qualcosa di non scelto (la perdita del lavoro, l’abbandono del partner, una malattia) ci sentiamo falliti, la maternità ci ricorda che la nostra libertà non sempre equivale alla scelta di ciò che ci accade, ma sempre può esprimersi con un 'sì' o con un 'no' alla vita. Il 'no' è la parola del rifiuto, ma anche del controllo: ciò che non ho deciso, pianificato non deve esistere, perché minaccia la mia capacità di autodeterminazione. Che oggi definisce, riduttivamente, la libertà. Il 'sì' è la parola dell’accoglienza: posso non aver scelto qualcosa che mi viene incontro e mi interpella. Posso restare stupita, averne paura, domandarmi quali cambiamenti porterà nella mia vita e se sono disposta a mettermi in gioco, che significa non sapere esattamente quel che succederà (ma lo sappiamo mai?).Tante cose si potrebbero dire, ma ne condivido due, una maturata dall’esperienza, l’altra dalla riflessione (per me sempre intrecciate, peraltro). L’esperienza mi ha insegnato che l’accoglienza è sempre fonte di novità e di vita, mentre la pianificazione produce ripetizione e costruzione di un mondo a immagine dei nostri limiti. È sempre l’altro che ci libera dalla prigione di noi stessi, che ci piace dipingere come la nostra volontà libera. «Mai senza l’altro», scriveva Michel de Certeau, e non a caso. Nella relazione con l’altro impariamo chi siamo, scopriamo ciò che altrimenti non avremmo mai conosciuto di noi. La relazione di cura, poi, ci regala un 'saper fare' che non è altrimenti disponibile, e che plasma, insieme ai gesti quotidiani semplici ma sempre più sapienti di sollecitudine verso altri, la nostra umanità.Essere madre (non 'avere un figlio': un figlio non si ha mai) è fin dal principio un’educazione all’ascolto. Dal momento in cui nel nostro grembo percepiamo quel guizzo miracoloso di una vita nuova, e poi i movimenti della creatura che sta crescendo, fino al pianto della nascita e oltre, essere madre allena a 'far essere' l’altro. Una postura sempre più esposta all’oblio sociale, con effetti devastanti sul nostro vivere insieme, dai tratti disumani sempre più evidenti. Quella sapienza di ascolto e di tocco, invece, diventa un patrimonio per la collettività, anche una volta che la funzione materna sia adempiuta. Dalla riflessione scaturisce poi l’identificazione di un paradosso: la retorica dell’«uguaglianza delle differenze» e di una equivalenza dove tutto è solo questione di scelta nelle mani dell’io produce in realtà un altericidio , un’uccisione – violenta – dell’alterità. Perché rifiuta di riconoscerla, di riconoscere che c’è dell’altro oltre a noi stessi e a ciò che ci va di fare in quel momento. Perché nega che il senso del limite sia una condizione, e non una ostacolo, per la libertà; mentre il suo rifiuto dissolve la possibilità del vivere insieme, come diventa sempre più evidente. L’alterità (gli altri, il creato) va 'custodita', perché è un valore, al di là del fatto che sappiamo coglierlo nella sua pienezza di significato: non è semplicemente un bene a nostra disposizione. E se come tale lo trattiamo, distruggeremo le condizioni stesse della nostra esistenza, individuale e collettiva. Accogliere e custodire non sono un attentato alla nostra libertà che ci 'diminuisce', ma occasioni di un’apertura all’eccedenza, a un 'di più', che ci regala una pienezza altrimenti inarrivabile. Questo, dai miei figli, ho imparato e mi piace condividere oggi.