Opinioni

Come si migra e si ricade nella «guerra a pezzi». Ma respingere non è mai sensato

Gianfranco Cattai* domenica 23 agosto 2015
Caro direttore, recentemente le prime pagine dei quotidiani hanno riferito i dati del Viminale secondo cui nel 2015 un 'irregolare' o 'clandestino' su due è stato rimpatriato dall’Italia. Se per alcuni questo dato potrebbe essere di conforto, per altri – come me – 'raddrizzare' la statistica porta a pensare alle conseguenze di ogni rientro forzato.  In particolare, per chi proviene dall’Africa sub sahariana il progetto migratorio vede coinvolta la famiglia o addirittura il villaggio che hanno messo insieme il denaro per il grande viaggio. Spesso il viaggio per i giovani vede l’impegno dei genitori, con l’esercizio di una paternità e maternità responsabile, in quanto si tratta di cercare un’opportunità di futuro che nel Paese non c’è. Vede l’attesa di chi resta rispetto all’investimento fatto per il fratello o la sorella. E si sa in partenza, per quelli che non riescono a raggiungere l’Europa con un volo aereo, che le difficoltà del viaggio sono inenarrabili: fatica, pericoli, violenze, abusi, stupri, schiavitù.  Tu che parti, poi, sai anche che con molta probabilità rischi la vita, che infine gli toccherà di salire su un barcone che potrebbe portare 90 persone e invece ne caricherà 400. Eppure con rassegnata determinazione, o con lucida follia, metti in gioco la tua vita. E poi ti ritrovi a essere 'respinto', rimpatriato', 'espulso'. Cioè fallito. Con quale coraggio potrai ripresentarti a casa? Con quale stato d’animo potrai tornare al tuo mondo dopo due o più anni di viaggio che spesso, nonostante tutto, viene ancora oggi definito 'per il paradiso oltre il Mediterraneo'? Sei marchiato. Sei uno o una che non ce l’ha fatta. Che non troverà moglie o marito. Che non ha neanche più voglia di cercare il lavoro che non c’è.  Vegetare in qualche periferia urbana senza far sapere ai tuoi che sei tornato nel Paese rischia d’esser il futuro. E vivere di espedienti. Ti sembrerà provvidenziale la proposta di chi ti offrirà una congrua mensilità e la possibilità di far parte di un gruppo organizzato. Accetterai volentieri gli addestramenti militari che ti permetteranno di sfogare la rabbia contro chi non ti ha accolto. Metterai volentieri a disposizioni le possibili conoscenze dei luoghi, delle persone e delle comunità dove sei stato oltre il Mediterraneo. Coltiverai quel senso di odio difficile da superare per chi pensa che il nostro comune futuro sta nelle relazioni di dialogo tra le comunità africane ed europee. Ci vorrebbe tanto a immaginare un rimpatrio assistito? Costa di più per la sicurezza internazionale la prevenzione o la lotta al terrorismo? Perché non fare tesoro delle buone esperienze maturate anche dal nostro Paese oltre che negli altri Paesi europei? Abbiamo o no consapevolezza che una persona che ha avuto il coraggio e la forza, certo dovuti anche alla disperazione, per intraprendere il 'grande viaggio' può trasformarsi, suo malgrado, in un terrorista? Anche a causa nostra oltre che per motivi propri delle terre d’origine? Vogliamo riflettere sulle opportunità alternative? Nel caso del 2015 si tratterebbe, sinora, di immaginare opportunità per 8.497 persone piuttosto che limitarci a respingere, piuttosto che arrenderci e tentare di 'difenderci' da un fenomeno epocale.  Evidentemente, noi siamo tra quelli che pensano in modo sano, e non solo strumentalmente, che 'bisognerebbe aiutarli a stare a casa propria'. Ci riferiamo soprattutto a quelli che migrano per motivi economici. Senza assolutamente sollevare dubbi sul diritto di ciascuna persona alla migrazione. Stando però attenti soprattutto alla coerenza del 'bisognerebbe aiutarli' perché se si continua ad operare con pratiche economico-commerciali che impoveriscono i Paesi e le comunità con cui il sistema Italia si rapporta e siamo incapaci di qualsiasi serio piano di contrasto della miseria e di cooperazione allo sviluppo non vediamo nessuna prospettiva.  Aiutarli a stare casa propria con la dignità di un lavoro, con una prospettiva di qualità vita per sé e i propri figli è sicuramente una delle componenti da approfondire se si vuole affrontare oggi il tema migratorio.  Caro direttore, grazie dell’approccio del tuo giornale anche su questo tema. Purtroppo certa comunicazione continua colpevolmente a limitare il tema dell’immigrazione alla cronaca degli sbarchi e alla contabilità allarmistica degli arrivi. Sappiamo che vendere paura può essere un esercizio a (provvisorio) alto rendimento non solo per certa comunicazione, ma anche per un certo modo di far politica: così però non ci accorgiamo che 'la guerra a pezzi' sta crescendo e non utilizziamo le nostre energie per affrontarla.*Presidente Focsiv