Opinioni

Ma Marco Biagi pedala ancora. L'odio dei mistificatori e il suo vero e buon lavoro

Francesco Riccardi martedì 20 marzo 2018

Prima le incredibili esternazioni dell’ex brigatista Barbara Balzerani, poi le ignobili scritte contro Marco Biagi all’Università di Modena: vedove e orfani delle persone uccise accusate di farlo «per mestiere» e sui muri l’«onore» riservato a Mario Galesi, l’assassino del giuslavorista bolognese (oltre che del professor Massimo D’Antona e dell’agente Emanuele Petri).

C’è davvero di che preoccuparsi se a 40 anni dall’uccisione di Aldo Moro e degli uomini della sua scorta e a 16, proprio ieri, dall’agguato mortale a Marco Biagi, si assiste al tentativo di criminalizzare le eroiche vittime e far assurgere a vittime eroiche i criminali. Si tratta non solo di un ribaltamento della verità storica ma – ciò che è più pericoloso – del tentativo di costruirne una alternativa, giustificatoria per allora e quindi valida per l’oggi.

Lo scenario fittizio di 'partigiani della classe operaia' da una parte e 'Stato imperialista delle multinazionali' dall’altra nel ’900, viene oggi riscritto, come nella sceneggiatura di una pessima fiction post-moderna, con 'resistenti' e antagonisti a difesa dell’esercito di lavoratori precari, resi tali dalle riforme del lavoro. Mistificando ruoli e responsabilità nella trasformazione epocale che proprio il lavoro sta subendo, indicando ancora come colpevoli chi invece si è speso per modernizzare le tutele, per trovare risposte efficaci a cambiamenti e nuovi bisogni.

Come fu negli anni 70 per Aldo Moro, con il suo progetto di una «terza fase» (dell’alternanza di governo) per la nostra democrazia repubblicana e poi, a cavallo del nuovo secolo, per Marco Biagi con la sua capacità di operare per il bene del Paese al di sopra e al di là delle contese politiche, prima con un governo di centrosinistra e poi con uno di centrodestra, nel tentativo appunto di sottrarre lo sviluppo dell’occupazione alle logiche dello scontro ideologico per farne invece un obiettivo comune di promozione sociale.

Così, lo slogan infame «Biagi non pedala più» – già gridato in alcune piazze dagli antagonisti e riproposto ieri sui muri dell’Università di Modena – risulta tragicamente vero se si pensa all’uomo vigliaccamente ucciso 16 anni fa, mentre tornava a casa a Bologna in bicicletta dalla stazione. Non pedala più, Marco Biagi, su quella vecchia bicicletta rimasta il simbolo di un uomo lucido e mite, coraggioso e indifeso: è stato strappato all’affetto dei suoi cari, dei suoi studenti, di quanti (politici e no) ne hanno potuto apprezzare le doti umane, oltre a quelle di studioso.

Ma quello stesso slogan è quanto di più falso possa dirsi se si guarda al pensiero e soprattutto all’opera del professore. E non solo perché il Centro studi a lui intitolato ne porta avanti in particolare il metodo comparativo, basato sul confronto con legislazioni ed esperienze di altri Paesi, e le modalità educative con studenti e borsisti. Quanto soprattutto per gli effetti pratici della legge che porta il nome del docente ucciso dai terroristi (nonostante l’incompiutezza sulle politiche attive e le successive modifiche, a volte utili, altre decisamente no). Marco Biagi, infatti, pedala ancora su altre gambe.

Quelle, ad esempio, dei tanti giovani e meno giovani che nel tempo hanno trovato maggiori occasioni di lavoro, grazie alle politiche di liberalizzazione e flessibilizzazione del mercato del lavoro italiano, alle quali proprio Biagi diede il maggiore contributo. O le gambe delle tante donne che hanno potuto ottenere il part-time grazie all’introduzione delle clausole elastiche contenute nella legge Biagi. O le gambe dei malati di tumore, che le regole da lui pensate tutelano in maniera più decisa, prevedendo per loro la concessione automatica del tempo ridotto affinché possano curarsi.

O, ancora, le gambe degli studenti, che grazie ai nuovi servizi di placement delle università – autorizzati all’intermediazione di manodopera – trovano un posto di lavoro appena laureati. E ancora a pedalare sono le gambe dei tanti disoccupati che, oggi, non hanno più solo i vecchi uffici di collocamento ai quali rivolgersi, ma un ventaglio di possibilità costituite da più moderni centri per l’impiego, agenzie per il lavoro, società di ricollocamento. Oggi occorre dunque mantenere 'pulita' la memoria di un uomo limpido e impegnato a garantire opportunità e diritti a chi non li aveva.

E soprattutto evitare di fomentare una nuova violenza ingiustificata, confondendo vittime e carnefici, riaccendendo uno scontro ideologico sul lavoro che dobbiamo lasciare come eredità non riscossa del Novecento. Tocca a noi, ora, continuare a pedalare mantenendo saldo il manubrio della verità. Lo dobbiamo a Biagi, a Moro, a D’Antona... a tutte le vittime del terrorismo, alle vedove e agli orfani. Lo dobbiamo a noi stessi, in nome del rispetto della vita, della libertà, della democrazia.