Opinioni

Paradossi delle analisi, vera forza di un'economia. Ma consumare meno in questa Italia è un male?

Paolo Preti sabato 23 febbraio 2013
​Negli ultimi tempi un’affermazione mi ha colpito più di altre: la previsione – firmata Confcommercio – per la quale nel corso del 2013 i consumi delle famiglie scenderanno a livelli paragonabili a quelli del secondo dopoguerra, ultimi anni Quaranta, primi anni Cinquanta del secolo scorso. Che si tratti di un anno difficile è fuor di dubbio, di un altro ’48 forse è legittimo, per fortuna, dubitare. In parallelo, si moltiplicano nelle varie trasmissioni televisive di approfondimento i servizi in cui la famiglia di turno apre il proprio frigorifero mostrandolo desolatamente vuoto a causa della crisi. Con tutto il rispetto che si deve a chi non si conosce e a chi mette in piazza i propri problemi vorrei qui affiancare due considerazioni, non certo risolutive della vicenda ma complementari. La prima porta a contrastare con decisione la filosofia, dichiarata in alcune occasioni e sottintesa nella stragrande maggioranza dei casi, che sta dietro certi servizi televisivi: minori consumi uguale maggiore povertà. Ciò, oggi, con i livelli medi di tenore di vita raggiunto dalla gran parte del nostro popolo, non corrisponde in nessun modo al vero. Questa equivalenza poteva valere in altre epoche storiche, per esempio nel citato secondo dopoguerra, quando mangiare carne una volta in settimana era un traguardo non sempre alla portata di tutti e dovervi eventualmente rinunciare per quindici giorni era oggettivamente un grave peggioramento delle condizioni di vita. Chi peraltro condivide, oggi e nel nostro Paese, l’equazione tra minori consumi e maggiore povertà deve essere cosciente che non può che immedesimarsi, almeno su un piano razionale, nel suo esatto contrario: ricchezza e benessere uguale maggiori consumi. Difficilmente, però, chi sostiene a spada tratta l’ipotesi del nostro impoverimento reale (cioè non relativo) è disposto a essere annoverato tra i fautori di un ormai logorato consumismo. Eppure, oggi e in Italia, così è, se la logica non difetta. È la stessa contraddizione per cui per l’ecologista ci vorrebbero meno macchine in circolazione, ma se poi si vendono meno automobili e più biciclette l’economista, che a volte è l’ecologista di cui sopra, ci dice che questo è segno di povertà crescente. E lo stesso vale per l’alimentare, con gli scontrini dei supermercati di valore medio molto più basso, ma anche con meno cose buttate via perché inutilizzate, e per l’abbigliamento, con abiti utilizzati più a lungo rinunciando a seguire le tendenze della moda. Tornare, almeno parzialmente, al valore d’uso delle cose dopo anni di valore d’immagine dovrebbe essere salutato da tutti come fattore positivo, anche se subìto. C’è tuttavia un settore in cui le cose forse sono più chiare ed è quello immobiliare: anche qui le compravendite sono abbondantemente diminuite. Con un’alta offerta e una bassa domanda, anche per via di mutui abbastanza cari, dovrebbe essere il momento per poter spuntare buoni affari con prezzi al metro quadro decrescenti. E invece no, i prezzi restano sostanzialmente stabili perché chi vende, e il nostro è un popolo di diffusa proprietà immobiliare, non "deve" vendere, per sua fortuna, e può aspettare tempi migliori. Si vende meno anche perché ce lo si può permettere, non solo e sempre perché si è più poveri. È molto chiaro, al contrario, che minori consumi rappresentano un problema per le aziende che quei prodotti o quei servizi li realizzano, e per le persone che vi lavorano e vedono messo a rischio il proprio posto di lavoro. Per fortuna molte di queste imprese, in presenza di un calo dei consumi interni, hanno saputo conquistare nuovi mercati esteri e migliorare i loro risultati: complessivamente, infatti, la nostra economia ha realizzato nel corso del 2012 il valore delle esportazioni più alto da sempre. Qui bisogna insistere, non tanto sulla povertà correlata ai minori consumi, chiedendo a chi si appresta a governare il Paese determinazione e azioni mirate. C’è però una seconda e più breve considerazione che si concretizza in una domanda. Come è mai possibile che tre o quattro generazioni fa, appunto nel dopoguerra, due adulti, un padre e una madre, riuscissero nell’allora proibitiva impresa di tirare grandi quattro, cinque, sei figli in media e oggi sei adulti, quattro nonni e due genitori, facciano fatica a crescere un figlio virgola qualcosa, che è la presenza media di bambini nelle nostre famiglie? C’è forse un problema educativo ben prima e ben più grande di quello economico, pur presente. Basti notare che un tempo la difficoltà, quella vera, non faceva notizia ed era stimolo al miglioramento continuo, oggi è protagonista in negativo anche quando ci aiuta a rimettere i piedi per terra e a riprendere una più misurata coscienza di sé.