Opinioni

Il Parlamento, la Rete, il futuro. Ma che sia democrazia

Mauro Magatti martedì 24 luglio 2018

Davide Casaleggio ha lanciato il sasso: in futuro, il Parlamento potrebbe non servire più. Al suo posto, dice il primo "controllore" della piattaforma digitale che seleziona personale e scelte politiche del M5S, dobbiamo avere persone competenti capaci di prendere decisioni in modo rapido e diffuso. Secondo un modello che la Rete può aiutare a sviluppare.

Espressa nei limiti di una intervista giornalistica, l’affermazione si espone al rischio di semplificazioni e strumentalizzazioni. E soprattutto oggi, in un momento in cui la democrazia è in evidente affanno in tutto il mondo, più che un sogno può suonare come l’annuncio di un incubo. Per questo, una dichiarazione come quella di Casaleggio non deve essere lasciata cadere nel vuoto. Per continuare a riflettere, con la serietà del caso e senza scandalizzarsi, sul futuro sollecitato dai cambiamenti in corso. Tenendo conto che, trattandosi di una delle conquiste fondamentali della storia delle democrazie occidentali, toccare – anche solo attraverso semplici parole – l’istituzione parlamentare richiede la massima cautela.

Fu nel momento in cui si mise in discussione lo Stato assoluto che il Parlamento nacque come organo dove i diversi interessi potevano ritrovarsi e "parlare", per arrivare a prendere le decisioni necessarie al governo di società che erano ancora relativamente semplici. Il suffragio universale ha costituito lo strumento attraverso cui si sono tenute insieme l’inclusione della popolazione nei sistemi politici e la necessità di un processo di decisione ordinato e razionale. È la quadratura del cerchio realizzata dalla democrazia rappresentativa.

Negli ultimi decenni l’aumento della complessità sociale ha posto alcuni problemi che nel tempo sono andati aggravandosi. Ne possiamo considerare almeno due.

Il primo ha a che fare con la capacità dei sistemi democratici di arrivare a determinazioni tempestive ed efficaci. È sempre più evidente che, in una società avanzata, non tutto può essere ricondotto al Parlamento e al Governo. C’è bisogno di una articolazione più ricca, di luoghi di decisione capaci e responsabili che non stanno tutti in Parlamento. Per risolvere il problema, la strada battuta è stata quella delle autorità indipendenti e delle società partecipate nella logica di una estensione delle forme di governance. Soluzione solo in parte soddisfacente, perché la capacità di mantenere il focus sul bene pubblico non è sempre garantita. Al fondo c’è il grande tema di come sia possibile gestire concretamente l’interesse pubblico in una società multiforme e dinamica. Una questione che rimane aperta.

Il secondo problema riguarda le forme della partecipazione. A oggi l’anello di congiunzione tra il cittadino e il Parlamento è il voto. Uno snodo che rimane fondamentale e imprescindibile. Ma anche insufficiente. Lo strumento del referendum, che la Rete potrebbe potenziare, è interessante e non va demonizzato. Ma è chiaro che ci sono problemi seri sulla capacità di arrivare ad avere opinioni sensate su problemi complessi. Col rischio di spostare la mediazione dai rappresentanti in Parlamento a qualche influencer in grado di orientare l’opinione pubblica. Rischio che in un’epoca di fake news, mezze verità e manipolazioni, non va sottovalutato.

Più interessante (e impegnativo) è interrogarsi sul modo in cui la Rete possa aiutarci a costruire nuove forme di governance partecipate nella produzione e gestione di "beni comuni" come via per contrastare quella apatia che è una delle malattie letali di ogni democrazia.

È rispetto a questi due nodi che la riflessione di Casaleggio sul futuro del Parlamento va collocata. Le imprese hanno già capito che il digitale costituisce l’infrastruttura tecnologica del futuro. In grado non solo di aiutarci a fare le cose, ma anche a stabilire relazioni e persino a pensare.

Per questa ragione è doveroso interrogarsi sulle implicazioni che il nuovo ambiente tecnologico avrà sulla vita politica. Potenzialmente almeno, la Rete può permettere di coniugare in modo nuovo la necessità di forme di decisione diffusa e la domanda di nuova partecipazione. Aiutando così le democrazie a fare un passo in avanti. Ma nel dire questo, è necessario non dimenticare alcuni caveat. Come i primi passi compiuti in questi anni in tema di democrazia digitale ci suggeriscono. In primo luogo, la Rete non è di per sé garanzia di partecipazione, trasparenza, competenza. Al contrario, può benissimo essere il luogo della massima concertazione del potere di decisione o l’amplificatore della irrazionalità sociale. Se la Rete sarà buona o cattiva dipenderà dalle architetture istituzionali in cui sarà incastonata. Ogni discorso semplificato ed essenzialista sulla Rete rischia di trasformarsi in una minaccia per la democrazia. In secondo luogo, una maggiore partecipazione e una governance diffusa hanno bisogno di un colossale investimento nella formazione. Predicare la rete senza insistere parallelamente sul fabbisogno di conoscenza di una società digitale rischia di essere del tutto fuorviante.

Infine, quando si toccano i fondamentali della vita insieme, occorre procedere con i piedi di piombo. Su questo vale la massima: prima costruire, poi smobilitare. Può essere che un giorno, nel corso del XXI secolo, avremo democrazie vere anche se basate su qualcosa di diverso dal Parlamento. Ma a un tale risultato occorrerà arrivare facendo un passo per volta. Come quando si va in parete, ogni chiodo deve essere ben piantato prima di lasciare l’appoggio su cui ci si sta appoggiando.