Opinioni

Sul confine e oltre / 4. I tristi imperi del merito

Luigino Bruni sabato 11 febbraio 2017

La sventura è di per sé inarticolata. Gli sventurati supplicano in silenzio che vengano loro fornite parole per esprimersi. Vi sono epoche in cui non sono esauditi.
Simone Weil, La persona e il sacro

Il merito è il grande paradosso del culto economico del nostro tempo. Il primo spirito del capitalismo fu generato dalla radicale critica di Lutero alla teologia di merito, ma quella "pietra scartata" oggi è diventata la "testata d’angolo" della nuova religione capitalista, che sta nascendo dal cuore di Paesi edificati proprio su quell’antica etica protestante anti-meritocratica. La salvezza per sola gratia e non per i nostri meriti fu posta al centro della Riforma protestante. Fu anche una ripresa, dopo un millennio, della polemica di Agostino contro Pelagio (Lutero era stato monaco agostiniano). La critica anti-pelagiana era essenzialmente un superamento dell’antichissima idea che voleva che la salvezza dell’anima, la benedizione di Dio, il paradiso, potessero essere guadagnati, acquistati, comprati, meritati dalle nostre azioni. La teologia del merito voleva imprigionare anche Dio dentro la logica meritocratica, costringendolo a punire e premiare sulla base di criteri che i teologi gli attribuivano.

La lotta al pelagianesimo fu un’operazione tutt’altro che marginale. Fu decisiva per la Chiesa dei primi secoli (una lotta che in realtà, come possiamo vedere, non è stata mai vinta). Se, infatti, fosse stata la teologia pelagiana a prevalere, il cristianesimo si sarebbe aggiunto alle tante sette mediorientali apocalittiche e gnostiche, o trasformato in un’etica simile allo stoicismo.

Avrebbe infatti perso la charis (la grazia, la gratuità), che rappresentava il suo segno specifico, e che lo distingueva nettamente dalle dottrine religiose e dalle idolatrie meritocratiche dominanti. L’origine della religione meritocratica è dunque molto antica, si perde nella storia delle religioni e dei culti idolatrici. Il messaggio di Cristo, in continuità con l’anima profetica della Bibbia, ha operato una vera e propria rivoluzione in un mondo teologico dominato da culti economico/retributivi e dal loro merito – basta rileggere i dialoghi di Giobbe con i suoi amici per averne una idea molto chiara. Anche se nei vangeli e nei testi neo-testamentari ritroviamo residui meritocratici, le parole e la vita di Gesù furono soprattutto una critica radicale alla fede meritocratica, proseguita e sviluppata dalla teologia di Paolo.

Per capirlo è sufficiente prendere la parabola dell’operaio dell’ultima ora, dove la politica salariale del "padrone della vigna" segue un criterio radicalmente anti-meritocratico; oppure considerare la figura del "fratello maggiore" nel racconto del "figliol prodigo", che rimprovera il padre misericordioso proprio perché non ha seguito il registro meritocratico nei confronti del fratello – la misericordia è l’opposto della meritocrazia: non siamo perdonati perché lo meritiamo, ma è proprio la condizione di demerito che commuove le viscere della misericordia. Per non parlare delle beatitudini, che sono un manifesto eterno di non-meritocrazia.

Nel suo Regno vige un’altra legge: «Siate figli del Padre vostro celeste, che fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni». La perfezione di questa etica sta nel superamento definitivo del registro del merito: «Siate voi dunque perfetti come è perfetto il Padre vostro celeste» (Matteo, 5). Nonostante la chiarezza e la forza di questo messaggio, l’antica teologia economico-retributiva-meritocratica ha continuato ad influenzare l’umanesimo cristiano per tutto il Medioevo, e ben oltre. Le idee neo-pelagiane continuarono a informare la dottrina e soprattutto la prassi cristiane, fino alla vera malattia del "mercato delle indulgenze", che si comprende solo all’interno di una deformazione in senso retributivo-meritocratica del messaggio cristiano. E come sempre accade in materia di religione, le conseguenze di queste idee teologiche furono (e sono) immediatamente sociali, economiche, politiche. Coloro considerati demeritevoli erano (e sono) condannati ed emarginati anche dagli uomini, e i meritevoli prima di guadagnarsi il paradiso nell’altra vita lo raggiungevano su questa terra, dove ai loro meriti erano associati molti privilegi, denaro, potere.

La storia dell’Europa cristiana è stata un lento processo per liberarsi da questa visione arcaica della fede, in un alternarsi di fasi storiche più agostiniane ad altre più pelagiane. Ma fino a tempi recenti non abbiamo mai pensato di costruire una società interamente né prevalentemente meritocratica. Esercito, sport, scienza, scuola, erano ambiti tendenzialmente meritocratici, ma altre decisive sfere della vita erano rette da logiche diverse e qualche volta opposte. Nelle chiese, nella famiglia, nella cura, nella società civile, il criterio base non era il merito ma il bisogno – altra grande parola oggi dimenticata e sostituita dai gusti dei consumatori. La scuola, ad esempio, è un luogo dove nessuno, o pochi, hanno messo in dubbio che l’impianto meritocratico dovesse essere quello prevalente nella formazione e valutazione dei bambini e dei giovani (anche se non l’unico).

Non pensiamo però che questa scelta, apparentemente non controversa, non abbia prodotto nei secoli conseguenze molto rilevanti. Sulla base dei meriti e dei voti scolastici abbiamo costruito tutto un sistema sociale ed economico gerarchico e castale, dove nei primi posti stavano coloro che rispondevano meglio a quei meriti, e negli ultimi quelli che a scuola ottenevano performance peggiori. E così medici, avvocati, professori universitari hanno avuto stipendi e condizioni sociali molto migliori degli operai e dei contadini; e oggi, in questa nuova ondata di meritocrazia pelagiana, i lavoratori che, giorno e notte, mantengono pulite strade e fogne, ricevono salari centinaia di volte inferiori a quelli dei manager delle imprese nelle quali lavorano. Quel merito scolastico, che sembrava così ovvio e pacifico, in realtà ha determinato privilegi e dignità molto diversi tra di loro, che hanno retto e continuano a reggere l’impianto e le diseguaglianze delle nostre società. Se oggi volessimo spezzare la spirale di ineguaglianza e di esclusione, dovremmo dar vita a politiche educative anti-meritocratiche, soprattutto nei Paesi più poveri – come fummo capaci di fare in Europa nel secolo scorso con l’introduzione della scuola universale, obbligatoria e gratuita.

Oggi sarebbe più che mai urgente tornare all’antica critica di Agostino a Pelagio. Agostino non negava l’esistenza nelle persone di talenti e di impegno che poi generano quelle azioni o stati etici che chiamiamo meriti (da merere: guadagnare, mercede, lucro, meretrice). Il punto decisivo per Agostino riguardava la natura dei doni e dei meriti. Per lui erano charis, grazia, gratuità. Secondo Agostino, «Dio coronando i nostri meriti, corona i suoi doni». I meriti non sono merito nostro – se non in minima parte, una parte troppo minima per farne il muro maestro di una economia e di una civiltà. Ecco perché un importante effetto collaterale di una cultura che interpreta i talenti ricevuti come merito e non come doni, è una drammatica carestia di gratitudine vera e sincera. È l’ingratitudine di massa la prima nota dei sistemi meritocratici. Quando, infatti, leghiamo la stima sociale, le remunerazioni e il potere ai talenti e quindi ai meriti, non facciamo altro che ampliare e amplificare enormemente le diseguaglianze. Persone già diseguali alla nascita per talenti naturali e condizioni familiari e sociali, da adulti lo diventano molto di più.

Nel XX secolo, soprattutto in Europa, la politica riduceva le distanze nei punti di partenza, in nome del principio di uguaglianza. Il nostro tempo meritocratico, invece, le potenzia e le estremizza. Così, se sono figlio di genitori colti, ricchi e intelligenti, se nasco e cresco in un Paese con molti beni pubblici e con un buon sistema sanitario ed educativo, se la mia dotazione genetica è stata particolarmente felice, ne segue che frequenterò scuole migliori, maturerò più meriti scolastici dei miei compagni nati in condizioni naturali e sociali più sfavorevoli, troverò con ogni probabilità nel mercato del lavoro un’occupazione più remunerata dal sistema meritocratico. E così, quando andrò in pensione, la distanza dai miei concittadini venuti al mondo con meno talenti, si sarà moltiplicata nel corso della vita di un fattore di 10, 20, 100.

Non capiamo allora l’aumento delle diseguaglianze nel nostro tempo se non prendiamo molto sul serio la sua radice: il forte aumento della teologia meritocratica del capitalismo. E non capiamo la crescente colpevolizzazione dei poveri, sempre più considerati non come sventurati ma come demeritevoli, se non consideriamo l’avanzare indisturbato della logica meritocratica. Se, infatti, interpreto i talenti ricevuti (dalla vita o dai genitori) come merito, il passo di considerare immeritevoli e colpevoli coloro che quei talenti non li hanno, diventa molto, troppo, breve. L’asse dei mondi meritocratici non è il paradiso, ma l’inferno e il purgatorio. Sono i demeriti i protagonisti degli imperi del merito. Tutte le teologie meritocratiche, prima di essere una teoria del merito, sono una teoria e una prassi del demerito, delle colpe, delle espiazioni. Si presentano come umanesimo, personalismo e liberazione, ma diventano immediatamente un meccanismo di creazione di colpe e di pene, una produzione di massa di peccati e di peccatori che poi gestiscono e controllano con un complesso sistema teso a ridurre quelle pene su questa terra e in cielo.

Gli universi meritocratici sono abitati da pochissimi eletti e da una moltitudine di "dannati" che sperano per tutta la vita in sconti di pena. Ieri, e oggi, quando il posto dei predicatori pelagiani lo hanno preso i nuovi evangelizzatori della meritocrazia nelle imprese e ormai ovunque, che nei loro templi stanno ricreando nuovi fiorentissimi "mercati delle indulgenze", nei quali la moneta per comprare il paradiso, o almeno il purgatorio, non è più il denaro né i pellegrinaggi a Santiago, ma il sacrificio di interi brani della propria vita, carne e sangue. Il controllo delle anime non avviene più nei confessionali e nei manuali per confessori, ma negli uffici di coaching e counseling e, soprattutto, grazie al meccanismo dei contratti incentivanti, che accordano perfettamente i premi e le pene ai meriti e ai demeriti, definiti dettagliatissimamente dalla divinità-impresa e implementati dai suoi sacerdoti.

Ieri e oggi le meritocrazie hanno un solo grande nemico: la gratuità, che temono più di ogni cosa perché scardina le gerarchie e libera le persone dalla schiavitù dei meriti e dei demeriti. Solo una rivoluzione della gratuità - urlata, desiderata, vissuta, donata - potrà liberarci da questa nuova inondazione di pelagianesimo, se durante questo tempo di schiavitù e di lavori forzati a servizio del faraone, non smetteremo di sognare insieme una terra promessa.

l.bruni@lumsa.it