Opinioni

Stella dell'assenza /4. Valore e costo del primo nome

Luigino Bruini sabato 10 dicembre 2022

È Elisabetta, contro il parere di tutta la parentela, la quale le vorrebbe chiamare il figlio con il nome del padre, che interviene dicendo: ‘Giovanni sarà il suo nome’ (Lc 1,60). Chiamare Zaccaria il figlio avrebbe voluto dire ricondurlo su un sentiero già tracciato, quello del ministero sacerdotale del padre, impedirgli di esprimere la propria originalità
Alberto Mello, Il nome e il volto

Tutte le vocazioni vere sono meravigliose. È l’esperienza del sublime, quando un singolo attimo ha valore infinito, e quindi da solo basta per dar senso a una intera esistenza. E così può succedere che una persona abbia sentito la voce una sola volta nella vita, scomparsa dopo aver pronunciato il nostro nome; ma quell’unico incontro è stato sufficiente per continuare il volo fino all’ultimo nido oltre l’ultimo orizzonte. Qualche volta, invece, nelle vocazioni si sperimenta una seconda chiamata. È quella che arriva nella stagione adulta della vita quando, un giorno, si scopre l’essenza della prima chiamata e si parte per un nuovo viaggio, tutto simile e tutto diverso dal primo. Una nuova chiamata della stessa voce buona, che ci chiama non per usarci o soddisfare i propri bisogni – neanche i bisogni di Dio – ma solo per farci fiorire liberi. La Bibbia, però, ci dice che non tutte le seconde chiamate sono buone, non tutte sono parole di vita. E noi lo capiamo, perché anche oggi ci sono donne e uomini che attendono seconde chiamate che non sono buone. Come quella chiamata di chi ci ha fatto un “regalo” che noi, sbagliando, abbiamo accettato pur sapendo che un giorno ci avrebbe richiamato per pretendere una reciprocità sbagliata: e ogni volta che squilla il telefono torna la stessa paura, e uccide la speranza.

«Dopo queste cose, quando la collera del re si fu calmata, egli si ricordò di Vasti» (Ester 2,1). Il banchetto di Assuero è finito, i fumi dell’alcol svaniti insieme alla collera del re scatenata dal gran rifiuto di sua moglie Vasti. Ed ecco che i suoi funzionari cercano una soluzione alla crisi coniugale e politica: «“Si cerchino per il re fanciulle vergini e di bell’aspetto. Stabilisca il re in tutte le province del suo regno commissari, i quali radunino tutte le fanciulle vergini e belle nella reggia di Susa, nella casa delle donne, sotto la sorveglianza di Egài, eunuco del re e guardiano delle donne, che darà loro i cosmetici che spettano loro. La fanciulla che piacerà al re diventerà regina al posto di Vasti”. La cosa piacque al re e così si fece» (2,2-4). Nella Bibbia fa così la sua comparsa il primo (e unico) concorso di bellezza. E come in tutti questi concorsi, l’impressione forte è una perdita in dignità delle donne, che, come nella proposta rifiutata dalla regina Vasti, devono sfilare in passerelle preparate da maschi per altri maschi. Il libro di Ester continua in un clima di umiliazione femminile, in una atmosfera maschile pesante e volgare, dove le donne sono comparse necessarie di uno spettacolo per soli uomini adulti.

«Ora nella cittadella di Susa c'era un beniaminita chiamato Mordecai, figlio di Iair, figlio di Simei, figlio di Kish, che era stato deportato da Gerusalemme fra quelli condotti in esilio in Babilonia... Egli aveva allevato Hadàssa, cioè Ester, figlia di un suo zio, perché essa era orfana di padre e di madre. La fanciulla era di bella presenza e di aspetto avvenente; alla morte del padre e della madre, Mordecai l'aveva presa come propria figlia» (2,5-7). Eccoci arrivati ai due protagonisti principali del libro: Mordecai (o Mardocheo) ed Ester, il cui nome ebraico era Hadàssa, cioè “mirto”, un dettaglio che troviamo soltanto nel testo masoretico (ebraico), non in quello greco. Questo nome non verrà più menzionato nel libro, a dirci che l’ingresso di “Mirto” nella corte di Assuero significò per lei rinunciare alla propria identità profonda. Chi conosce la Bibbia sa cosa è in essa il “nome” – forse per questa ragione lo troviamo solo nel testo ebraico. È destino, il proprio posto al mondo, compito, un marchio indelebile dell’anima che solo Dio può cambiare in vista di un compito-posto-destino ancora più bello. Nel rivelarci il primo nome ebraico, quello di casa e della madre, quell’antico autore ci ha voluto dire qualcosa di importante sul primo prezzo che Ester dovette pagare per entrare in quella misteriosa economia della salvezza. Nella Bibbia, poi, il nome lo sceglie la madre. È lei, a partire da Eva (Gn 4,1), che possiede la conoscenza delle viscere necessaria per imprimere sul figlio il segno del senso della vita. Il suo nome Dio lo rivela a un uomo, Mosè, ma il nome degli uomini e delle donne lo rivelano le donne, è loro mestiere. E allora in una donna che rinuncia al suo primo nome c’è qualcosa di intimo e di speciale, che non può passare inosservato. L’assenza in Ester è anche assenza del nome.

Ma se Ester è anche nome di una vocazione – e lo è –, allora questo gioco di nomi ci svela qualcosa della grammatica delle vocazioni. Ogni nome nuovo è nome risorto sulla morte del primo nome di casa. Si viene al mondo un giorno con un nome, in un luogo, in un tempo. In un altro giorno, in un altro luogo una voce ci chiama, ci introduce in un altro tempo, ci dona un nuovo nome. Per un tempo, a volte lungo, i due nomi convivono l’uno accanto (o dentro) l’altro, l’uno chiama e l’altro risponde all’unisono. Ma arriva un momento decisivo quando scopriamo che il primo nome era morto nel giorno del secondo nome, ma non ce ne eravamo accorti perché una mano buona ci aveva coperto gli occhi del cuore. Improvvisamente ci rendiamo conto che quel primo “Mirto” era morto per generare “Ester” nel parto dello spirito. Ci appare chiara la vita che potevamo vivere e non abbiamo vissuto, la donna che potevamo avere vicino e non abbiamo, i figli che non abbiamo messo al mondo. Abbiamo svolto il nostro compito, abbiamo seguito la voce, e non vorremmo tornare indietro, ma in quel giorno capiamo il valore e il costo del primo nome. È un attimo, quell’attimo diverso in cui la farfalla ha nostalgia del bruco, sebbene non rinuncerebbe mai al suo volo effimero. Se poi è vero il legame biblico tra le donne e il nome, allora deve essere vero che nelle donne quando torna la nostalgia del primo nome l’esperienza è più forte, la sua morte per generarne un secondo fa più male. In questo cenno fugace al nome ebraico di Ester ci può essere, forse, qualcosa di tutto questo.

Anche Mordecai è un nome babilonese (“vitellino di Marduk”, una divinità), ma senza alcun riferimento al primo nome ebraico: la vocazione in gioco in questo libro è quella di Ester, non quella di suo cugino Mordecai. È della tribù di Beniamino, un nome che nella Bibbia dice molte cose, dolorose e complicate. È la tribù di Saul, il primo re maledetto e ripudiato da Dio, sconfitto da Davide, maledetto da Simai. Beniamino è, poi, la tribù di Geremia, profeta dell’esilio. Il testo ci dice infatti che Mordecai (o, più verosimilmente, il suo trisavolo Kish) era stato un deportato in Babilonia. L’esilio è ben presente anche nei verbi ebraici usati per dire che le ragazze furono “prese” dalle loro case e “condotte” presso la “casa delle donne” del re, sotto la custodia degli eunuchi (ci sarebbe molto da dire anche su queste figure drammatiche). «Quando l'ordine del re e il suo editto furono divulgati e un gran numero di fanciulle venivano radunate nella cittadella di Susa sotto la sorveglianza di Egài, anche Ester fu presa e condotta nella reggia, sotto la sorveglianza di Egài, guardiano delle donne» (2,8). Ancora esilio, deportazione femminile, donne preparate e offerte al re perché scelga la “favorita”.

Ecco la descrizione della procedura che porterà alla selezione della nuova regina: «Quando veniva il turno per una fanciulla di andare dal re Assuero alla fine dei dodici mesi prescritti alle donne per i loro preparativi – sei mesi per profumarsi con olio di mirra e sei mesi con aromi e altri cosmetici usati dalle donne – la fanciulla andava dal re... Vi andava la sera e la mattina seguente passava nella seconda casa delle donne, sotto la sorveglianza di Saasgàz, eunuco del re e guardiano delle concubine. Poi non tornava più dal re a meno che il re la desiderasse ed essa fosse richiamata per nome» (2,12-14). Un clima che ricorda da vicino quello de Le mille e una notte e la crudeltà del re Shahriyar che, tradito da sua moglie, consuma una nuova donna ogni notte e la mattina seguente la fa uccidere. In questo bizzarro concorso, le ragazze non vengono uccise al termine del test; vengono, semplicemente, custodite nella casa delle concubine, dove entravano e uscivano solo quando la loro bellezza sfioriva, a meno che non ricevessero una “seconda chiamata per nome” per desiderio carnale del re. Una morte diversa.
Prima della prova d’esame, le ragazze dovevano però sottoporsi a dodici mesi (!) di trattamenti con oli e aromi, per potersi presentare nelle condizioni ideali all’unico e decisivo incontro con il re. Oleate e profumate, con cosmetici “usati dalle donne”, un’espressione che rivela una incompetenza in materia da parte dell’autore, evidentemente maschio e lontano da queste faccende femminili (ma commissionate da uomini).

In conclusione, indugiamo un poco in compagnia di quelle donne-schiave in attesa di una possibile e improbabile seconda chiamata del re, alla quale potevano rispondere solo con un “sì”. Queste pagine non sono le stesse se a leggerle è una donna, ieri e oggi. I suoi occhi e la sua anima vedono cose diverse. Ma immaginiamo quei mesi, quegli anni trascorsi nell’attesa di una seconda chiamata “per nome”, vissuta tra due paure: quella di non essere tra le donne “richiamate”, e quella di un appuntamento nelle mani di un onnipotente. Paure diverse di donne, sempre e solo paure. Una nota a piè di pagina: quando nella Chiesa abbiamo usato la metafora delle vergini “spose” di Dio, forse insieme al Cantico dovevamo tener presente anche questa pagina di Ester, che ci avrebbe suggerito l’ambivalenza delle metafore sponsali, anche quando è Dio nel ruolo del re – le donne vere, diversamente da quelle dei film, in genere non desiderano sposare i re: qualche volta preferiscono i crocifissi, le corone di spine a quelle di diamanti.
Le civiltà crescono in umanità quando riescono ad aumentare le buone “chiamate per nome” e fanno di tutto per ridurre le chiamate cattive.

l.bruni@lumsa.it