Opinioni

Profezia è storia /26. Noi, con occhi in prestito

Luigino Bruni sabato 30 novembre 2019

Abramo trovò la sua controparte in una figura tarda, isolata, scoscesa della Bibbia: Giobbe. Se Abramo era la grazia non fondata sul merito, Giobbe era la disgrazia non fondata sulla colpa
Roberto Calasso, Il libro di tutti i libri


I giorni più luminosi della nostra vita, che sono sempre troppo pochi, sono quelli in cui ci siamo sentiti compresi e stimati non per i nostri meriti e demeriti ma perché qualcuno – una moglie, un fratello, una madre, un amico – ci ha amati nelle nostre imperfezioni, nei nostri limiti, nelle nostre ambivalenze e ambiguità; perché, in un giorno diverso, quella persona ha visto il nostro cuore e la sua sincerità. Perché non ci ha stimato e amato nonostante quei limiti e quelle imperfezioni, ma grazie a essi e a esse. Quei pochi rapporti diversi che ci accompagnano per tutta la vita sono incontri tra due cuori sinceri che almeno una volta si sono visti così, patti nati da alchimie tra anime che si sono incontrate nelle loro nudità oltre e prima i meriti e i demeriti. Poi, anche in questi rapporti diversi, gioiamo per i meriti nostri e degli altri, soffriamo e ci arrabbiamo per i demeriti; ma sappiamo che sono cose poco importanti, perché molto, troppo più importante è quel cuore che abbiamo visto, capito e soprattutto amato almeno una volta in un giorno speciale. Anche se non lo sappiamo, è questo sguardo che cerchiamo dal primo momento in cui veniamo alla luce, e lo inseguiamo con tenacia fino alla fine. Senza questo sguardo diverso, senza almeno una persona che ci ha visto e ci vede così (questi sguardi resistono per sempre), l’esistenza diventa troppo difficile, forse impossibile. E se c’è qualcosa nella vita che continua ancora ad affascinarmi e sedurmi ogni mattina non è la ricerca di qualche forma di perfezione morale, ma l’entusiasmo di continuare a camminare in cerca di sorprese, in compagnia dei vizi e virtù degli altri e miei. Una vita dove le ferite che inevitabilmente segniamo nel corpo e nell’anima degli altri e che da loro riceviamo nei combattimenti corpo-a-corpo, sono anche finestre per provare a vedere un brandello di cielo.

Uno dei messaggi più belli della Bibbia, forse la sua migliore lettera d’amore per noi, sta nel dirci che se non abbiamo ancora trovato tra gli esseri umani chi riuscisse ad arrivare fino alla sincerità più sincera del nostro intimo, c’è ancora uno sguardo di ultima istanza, quello di Chi "vede il cuore" oltre meriti e colpe. Un messaggio detto e ripetuto molte volte e in molti modi, una corda dai molti fili che unisce le sue prime pagine alle ultime. E quando non riusciamo a vedere la sincerità del cuore degli altri né del nostro, possiamo prendere in prestito gli occhi della Bibbia, per accorgerci un giorno che quegli occhi saranno diventati anche i nostri. Forse il miracolo più stupendo della Bibbia è ritrovarsi nel tempo trasformati nei suoi personaggi amati, letti e riletti: scendere nelle strade con le stesse viscere commosse del samaritano, tornare immeritevoli dai porcili e sentire l’abbraccio misericordioso, smettere di maledire dai nostri mucchi di letame e iniziare solo a chiamare Dio. Infatti la Bibbia, sebbene attraversata da una linea meritocratica arcaica e in parte ereditata dalle culture dei popoli con cui è entrata in contatto lungo la sua storia, nella sua anima più profonda non associa l’elezione (del popolo e delle singole persone) a meriti e virtù, e non scarta nessuno soltanto né primariamente per i suoi peccati. Abramo, Giacobbe, Mosè, Davide, Salomone, ci sono presentati come persone non più meritevoli degli altri uomini. E molti dei personaggi migliori dei libri biblici fanno peccati molto gravi (Davide) e qualche volta terminano la loro vita con una decadenza morale (Salomone). A ricordarci che l’elezione è sola grazia, che tutto è gratuità. Quando la Bibbia definisce qualcuno "giusto" non lo fa per giustificare la sua elezione ma per indicare un compito di salvezza (Noè) o per confutare la tesi della sventura legata alla colpa (Giobbe). Per i profeti, poi, la Bibbia non ci parla proprio dei loro meriti e demeriti, perché in questa economia sono assolutamente secondari, dovendo i profeti soltanto trasmettere una parola non loro, che si rivela più forte ed efficace dei loro vizi e virtù. E se la parola di Dio è più forte anche dei nostri peccati, una parola può sempre arrivare dentro i nostri abissi disperati a salvarci. La speranza biblica è sempre speranza della parola.

Dopo aver distrutto gli idoli, e tra questi anche il serpente di bronzo di Mosè, Ezechia credette solo in YHWH e ottenne, insieme al profeta Isaia, il grande miracolo della vittoria insperata sulla superpotenza assira: «Perciò così dice YHWH riguardo al re d’Assiria: "Non entrerà in questa città né vi lancerà una freccia... .Ora in quella notte l’angelo del Signore uscì e colpì nell’accampamento degli Assiri centoottantacinquemila uomini ... Sennàcherib, re d’Assiria, levò le tende, partì e fece ritorno a Ninive, dove rimase» (2 Re 19, 32-36). Ezechia ricevette poi anche un secondo "miracolo", la guarigione per mezzo del profeta Isaia da una malattia mortale, altri quindici anni di vita donatigli da Dio che ascoltò la sua sincera preghiera e così rettificò la parola di Isaia con la quale gli aveva annunziato la morte imminente (20, 1-11). Ma dopo queste grandi imprese i Libri dei Re ci mostrano un Ezechia che invecchiando perde qualcosa della bellezza e giustizia della prima parte del suo regno. Ad un certo punto del suo arco storico, fa la comparsa Babilonia: «In quel tempo Merodac-Baladàn, figlio di Baladàn, re di Babilonia, mandò lettere e un dono a Ezechia» (20,12). Ezechia ricevette gli ambasciatori babilonesi, e mostrò loro tutto l’oro e le ricchezze della reggia e di Gerusalemme. Siamo più di un secolo prima di Nabucodonosor, ma Isaia intravvede e profetizza la grande sciagura della deportazione: «Allora Isaia disse a Ezechia: "Ascolta la parola di YHWH: Ecco, verranno giorni nei quali tutto ciò che si trova nella tua reggia e ciò che hanno accumulato i tuoi padri fino ad oggi verrà portato a Babilonia; non resterà nulla. Prenderanno i figli che da te saranno usciti e che tu avrai generato, per farne eunuchi nella reggia di Babilonia"» (20,16-18).

Dal libro del profeta Geremia noi sappiamo che la memoria del miracolo di Ezechia-Isaia sugli assiri non aiutò il popolo durante l’assedio di Nabucodonosor. Quella vittoria ottenuta in un contesto simile divenne, più tardi, motivo di illusione per la gente di Gerusalemme, e offrì materiale efficacissimo ai falsi profeti per coltivare le illusioni del popolo che sarebbe arrivato un nuovo miracolo. Infatti, in nome del grande miracolo ottenuto contro gli assiri, il popolo non credette ad un altro grande profeta, Geremia, che indicava la sola strada buona: la resa alle truppe di Nabucodonosor. Non è raro che il ricordo di un episodio analogo di ieri conduca oggi sulla strada sbagliata. L’esercizio della memoria è tra i più difficili nelle storie spirituali e carismatiche, perché una scelta (per esempio, la resistenza fino alla fine di Ezechia) rivelatasi giusta e benedetta in un dato contesto, può rivelarsi sbagliata e pessima in un altro. Siamo di fronte ad un caso, tra i più importanti dell’intera Bibbia, di uso sbagliato del passato: il popolo di Israele non fece buon uso del ricordo del miracolo con gli assiri, e quando si trovò in una grande crisi simile a quella di Ezechia, Geremia dovette combattere contro l’ottusità del presente rafforzata dal ricordo del passato, e fu sconfitto. Rievocare il miracolo con gli Assiri al tempo di Isaia fu una disgrazia al tempo di Geremia, perché il popolo non si arrese ai babilonesi e fu distrutto e deportato. Due grandi profeti possono dire cose opposte in circostanze simili, e usare le parole di un profeta del passato per un discernimento concreto può portare a compiere la scelta sbagliata. La saggezza di una comunità che si trova a vivere una crisi analoga ad una vissuta nel passato, non sta nel ricordare le scelte concrete e empiriche fatte, nemmeno di rileggere le parole che in quel contesto furono dette da un grande profeta; l’unica saggezza di fronte alla crisi di oggi sta nell’ascoltare le parole che un profeta vero ci dice oggi, e seguirlo.

Nella storia personale di Ezechia, importante è la risposta che questi diede alla profezia di Isaia: «Ezechia disse a Isaia: "Buona è la parola di YHWH, che mi hai riferita". Egli pensava: "Perché no? Almeno vi saranno pace e stabilità nei miei giorni"» (20,19). Risposta quantomeno bizzarra, che tradisce un certo cinismo e soprattutto una mancanza di interesse per la sorte dei figli e "per i giorni" delle future generazioni, una dimensione morale decisiva nell’umanesimo biblico. Il libro delle Cronache – questi fatti di Ezechia ci vengono narrati da tre libri biblici: i Re, le Cronache e Isaia –, esprime un giudizio più netto sulla conclusione della vita di Ezechia: «Ezechia non corrispose ai benefici a lui concessi, perché il suo cuore si era insuperbito» (2 Cronache 32,25). La storia ci dice che nei lunghi regni (Ezechia regnò 29 anni: 18,2) anche i re migliori si corrompono, e i anche i più giusti tendono a trasformarsi in tiranni.

Anche la storia di Ezechia conosce la decadenza della fine. Non è mai facile conservare da adulti la bellezza della giovinezza, e anche le persone più nobili e giuste sono esposte al rischio realissimo del declino morale nel tratto discendente dell’arco della vita. Sorte che accomuna persone e istituzioni, perché anche le imprese, le organizzazioni, le comunità non riescono in genere a mantenere nel pomeriggio le promesse dell’aurora. Ezechia fu un re giusto, nonostante la fine. È la legge della vita, dove in ogni infanzia si seminano più semi di quelli che riusciranno a fiorire nella giovinezza e molti più di quelli che porteranno frutti nella maturità. E anche quando i frutti adulti sono molti e saporiti, non potranno mai eguagliare la purezza e l’innocenza aurorali del seme prima che marcisse e morisse nella terra della storia. Ecco perché una tentazione molto comune nella fase adulta delle storie nate da semi rari e puri è la nostalgia del primo seme, della sua bella interezza, dell’uno prima che si disperdesse e contaminasse nel molteplice, perché ci dimentichiamo che sotto il sole i frutti possono nascere solo dalla morte dell’uno. E che l’eccedenza della prima semina era necessaria per la bontà dei pochi frutti buoni, fosse pure uno solo. L’efficienza non è categoria dello spirito. Molte decadenze della vita adulta sono già iscritte nell’infanzia. Molte, non tutte, perché ci sono decadenze che potevamo evitare, che non erano necessarie. Ma ce ne accorgiamo solo alla fine, quando la sola saggezza possibile sarà pronunciare, docilmente, l’ultimo ’amen’. E, in quell’ultimo sguardo, non mancherà nulla.

l.bruni@lumsa.it