Opinioni

Logica carismatica /10. E nell'esilio non dimenticare

Luigino Bruni sabato 20 novembre 2021

E ogni volta il mio sistema era bello, vasto, spazioso, comodo, pulito e soprattutto liscio. E ogni volta un prodotto spontaneo e inatteso della vitalità universale veniva a dare una smentita alla mia scienza puerile e antiquata, figlia deplorevole dell’utopia
Charles Baudelaire, Exposition Universelle, 1855

Mi affascina molto la figura di Geremia profeta. Mentre tutti – sacerdoti, re e profeti di corte – negavano che i babilonesi di Nabucodonosor avrebbero distrutto il tempio e conquistata Gerusalemme, Geremia continuava tenacemente a ripetere che Israele sarebbe stato sconfitto e deportato in un lungo esilio. Ma poi, con la stessa certezza profetica, aggiungeva: alla fine un resto tornerà, la nostra storia continuerà; perché una storia è finita, ma non è finita la nostra storia.

La Chiesa è già da tempo in esilio, anche se molti non se sono accorti. Gerusalemme e il tempio sono già stati occupati da nuovi babilonesi. Non sono stati distrutti, semplicemente messi a reddito per nutrire i nuovi dèi insaziabili del consumo e del merito. E dentro il nostro esilio, Geremia, e con lui tutta la Bibbia, ci ripete: una storia è finita, ma non è finita la storia, perché un resto fedele la continuerà. Questa è la nostra speranza non-vana. Le altre speranze sono illusioni di falsi profeti, iscritti nel libro-paga dei babilonesi.
È dentro questo tempo di esilio che ho posto anche questa riflessione sulle comunità carismatiche. Ed è con questo spirito che andrebbero lette, lungo i fiumi di Babilonia. Non ho appeso la penna ai salici, ho provato a scrivere, a cantare in terra di esilio. Pagine che non hanno negato l’esilio, ma hanno provato a guardare oltre i grandi fiumi. Oggi sappiamo che gli ebrei in Babilonia scrissero i loro libri più belli, lì nacque la Bibbia, lì furono capaci di parlare di Alleanza e di Terra Promessa quando non le vedevano più ed erano diventate solo un amaro ricordo. Anche noi dovremmo parlare di comunità e carismi, dei loro dolori e dei loro problemi, senza mai distogliere lo sguardo dall’alleanza e dalla terra promessa.

Le comunità che nascono attorno a un carisma sono tra le realtà più sublimi ed esaltanti sulla terra. Sono vulnerabili e fragili, perché è sempre la parte più profonda e intima della vita a essere per sua natura vulnerabile e fragile ed esposta alla tragedia. La promessa della Bibbia e dei Vangeli sarà sempre una promessa comunitaria, si svolgerà sempre in mezzo a noi, non soltanto dentro il nostro cuore. Se vuoi uccidere la Bibbia e i Vangeli, uccidi le comunità – e in molti ci stanno provando, cercando di trasformare la vita cristiana in una faccenda individuale senza appartenenze forti, in un consumismo spirituale emotivo e solitario, finalmente innocuo.
La Chiesa nasce comunità. Gesù chiama dodici uomini, dodici amici, e subito altri uomini e donne. Con loro dà vita a una esperienza comunitaria straordinaria che né il tradimento di Giuda né quello di Pietro né il Golgota riuscirono a sconfiggere. Il primo gesto di Gesù a Cafarnao è una chiamata di discepoli, di compagni, a dirci che quella storia è storia collettiva, è la storia del "due o più". Il primo nome dei cristiani fu nome plurale. E dopo gli apostoli, e poi le migliaia di carismi che lungo i secoli hanno con le loro comunità fecondato e arricchito la terra. Le lettere di san Paolo ci parlano di comunità con problemi non meno gravi di quelli evidenziati in questa serie (e nelle quattro degli anni precedenti). Nelle sue chiese era la vicinanza storica a Cristo e a un carismatico come Paolo a creare le pre-condizioni per l’emergere di eccessi, errori ed esagerazioni di vario tipo. Per questa stessa ragione, è molto più probabile che i fenomeni problematici di cui abbiamo parlato siano più comuni nelle comunità con fondatore vivente (o da poco scomparso) che in quelle di antichi e antichissimi carismi.

Le vocazioni comunitarie sono qualcosa d’immenso, ed è questa loro immensità a renderle altamente rischiose. È un gioco multiplo di specchi tra la persona, la comunità, il carisma. Un gioco mirabile, fantastico, sublime, che spiega molto della forza e del fascino irresistibili di queste esperienze. Si attua una mirabile coincidenza tra interno ed esterno, tra anima individuale e anima collettiva. Ciò che arriva da fuori è avvertito come già preesistente dentro. Più si scava nell’anima più si trova la comunità, più si approfondisce la comunità più vi si trova la propria anima che riconosciamo nelle anime dei compagni e delle compagne. Dico "io" e risponde "noi", diciamo "noi" e sento pronunciare il mio nome, che mi ritorna diventato immenso come il mondo, infinito come il cielo. L’ebrezza di tali esperienze è davvero fantastica e unica, e chi le vive non vi rinuncerebbe per niente al mondo. Qui sta lo straordinario delle comunità carismatiche, insieme ai loro rischi e problemi, come in tutte le esperienze meravigliose perché, come le alte scalate, si svolgono sull’orlo del precipizio.

In tutta questa dinamica individuale e collettiva un elemento importante, forse quello davvero decisivo e trascurato, è il tempo. Perché l’esperienza vocazionale della giovinezza e quella della vita adulta sono diverse, molto diverse, e a volte possono diventarlo troppo. L’alba e il tramonto sono separati da un mezzodì luminosissimo, e così non si riconoscono come momenti dello stesso giorno, come toni diversi della stessa luce.
Esiste una profonda affinità elettiva tra la giovinezza e le comunità carismatiche. Il giovane è generoso, oltrepassa i limiti dell’ordinario, ama le esperienze fantastiche, radicali, esagerate ed estreme, vuole assaporare la vita fino alle midolla. È puro, ama e vive la gratuità, ha una fede genuina e non ideologica. Per questo quando incontra l’energia infinita sprigionata da un carisma inizia a volare. Spicca il volo e non si ferma più. Tutto crede, tutto spera, tutto sopporta pur di non tornare da quel folle volo, pur di naufragare in quel mare.
Quasi sempre la vita comunitaria potenzia le qualità del giovane, lo fa fiorire, sbocciare, portare i primi frutti saporitissimi. Poche cose sulla terra sono più belle e pure di un giovane innamorato di un carisma. Soprattutto se in quel giovane c’è una vocazione spirituale, una chiamata vera.

Allora un primo effetto di una vocazione spirituale, soprattutto quando cresce dentro una comunità, è l’allungamento del tempo della giovinezza, forse dell’infanzia. Si resta giovani – bambini evangelici – a lungo, e alcune dimensioni della giovinezza restano per tutta la vita - una certa bella ingenuità, occhi da bambino, la capacità di commuoversi di fronte alla bellezza, lo stupore per la bontà e la cattiveria eccessive. Si comprende allora che a causa della straordinaria esperienza che si vive da giovani, il diventare adulto dentro una comunità carismatica è particolarmente difficile, e qualche volta, per non dire spesso, si spezza qualcosa durante il passaggio.
Innanzitutto è difficile, se non impossibile, capire da giovani che quanto ci sta accadendo di meraviglioso è la festa del giorno delle nozze, e in quanto tale è destinata a durare poco. È difficile o impossibile, perché se ne fossimo davvero coscienti ci fermeremmo prima di iniziare il cammino. Una provvidenziale incoscienza è essenziale per partire. Se però poi manca un adeguato accompagnamento nei secondi anni di vita comunitaria, l’inevitabile impatto con il principio di realtà può essere devastante. Perché se il processo di maturazione non viene vissuto come passaggio verso una maggiore consapevolezza e verità, può essere interpretato soltanto come declino e non di rado come tradimento e inganno.

Di fronte ai primi necessari crepacci del muro della prima vocazione giovanile e delle forme concrete che essa ha assunto, succede troppo spesso che invece di lasciar crollare il primo muro di cinta e così scoprire nuovi giardini e prati su cui correre liberi, si chiamino i muratori per riparare le falle e ripristinare la vecchia costruzione. E così quando arrivo il giorno in cui i rattoppi non reggono più e l’edificio crolla, l’inevitabile e improvviso collasso non sarà vissuto come possibilità di un futuro migliore più largo e luminoso, ma come terremoto e distruzione. Il paesaggio che il crollo spalanca di fronte, invece di indicare nuovi orizzonti per una nuova vita matura, ora incute paura e si resta bloccati in mezzo alla macerie umane, psichiche, vocazionali.
Se i ragionamenti fatti in queste settimane contengono qualcosa di reale, allora affinché le comunità carismatiche possano continuare ad attrarre persone con vocazioni e così conoscere una nuova primavera, un resto dopo l’esilio, c’è un immenso e urgente bisogno di coraggio e di rischio nel lasciar crollare questi muri. Occorre sapere immaginare nuove forme di vita in comune, più nomadi e fluide, soprattutto nella fase adulta della vita delle persone. Generare più modi di vivere l’appartenenza forte alla comunità, fedeli allo spirito del carisma ma capaci di mutare le forme concrete e organizzative cui ha dato vita in passato. La vocazione è una, ma le forme delle vocazioni sono molte. Nel tempo degli esili e dei diluvi solo ciò che è agile e piccolo sopravvive.

Un’ultima nota, un’ultima parola personale, sussurrata. Mentre vivi il tempo adulto dell’esilio non dimenticare mai il tempo del primo amore, quando il tuo cuore udì parole diverse ed eterne (Os 2,16), gli occhi videro un altro sguardo. Perché non è bugia, è solo lontano. Volevi toccare il cielo e hai toccato la tua terra, forse per poterla finalmente amare davvero. Non dimenticare il primo patto, non dimenticare quella grande promessa: era tutta per te. Non dimenticare che all’inizio di una vita ora diventata complicata c’è stato davvero qualcosa di stupendo. C’è stata una giovane, un giovane, che nello splendore dei suoi anni ha creduto, ed è partito dietro un sì incondizionale. All’inizio c’è stato qualcosa di meraviglioso, una bellezza, una gratuità, una generosità infinite. E se c’era all’inizio, c’è per sempre. Nessuna delusione, nessun dolore, niente al mondo può cancellare questa infinita bellezza-gratuità-generosità. Non glielo permettere. E poi prova a risorgere.

Quando il Figlio dell’uomo tornerà sulla terra troverà ancora la fede nella comunità?

Dedicato a Friederike, che mi ha insegnato che una vocazione adulta può essere ancora più bella di quella splendida della giovinezza.

Domenica prossima tornerò all’altro filone della mia collaborazione con Avvenire": i commenti biblici. Con Osea, un profeta difficile e molto amato. Grazie a voi lettori per avermi seguito in queste dieci puntate sulle comunità, interrotte da un mese di convalescenza inatteso che ha dato, forse, un altro sapore alle parole. Qualcuno le ha trovate dure, e lo capisco; spero che qualcun altro le abbia trovate anche utili, scritte con la stessa anima con cui si dicono parole dure ma necessarie a un amico, o a se stesso. Grazie a Marco Tarquinio, direttore e amico caro, che continua a seguirmi, fiducioso e coraggioso, in questo lavoro settimanale non facile e meraviglioso, guadando l’esilio.

Grazie a Luigino Bruni, sempre, per la sua amicizia, la generosa tenacia anche nella prova e per la luminosa fedeltà alla Parola, alle parole condivise e alla verità scomoda eppure accogliente che dà senso alle imprese della vita e nutre il nostro essere comunità. (mt)