Opinioni

L'anima e la cetra /5. La benedizione dell'attesa

Luigino Bruni sabato 25 aprile 2020

Della prosperità dei giusti la città si rallegra, per la rovina dei malvagi si fa festa. La benedizione degli uomini retti fa prosperare una città, le parole dei malvagi la distruggono.
Libro dei Proverbi, capitolo 11

«Porgi l’orecchio, Signore, alle mie parole: penetra nel mio bisbiglio. Sii attento alla voce del mio grido, o mio re e mio Dio, perché te, te supplico Signore» (Salmo 5, 2–3). Un uomo innocente è accusato di un delitto. Ha cercato di difendersi, invano. Ha esaurito i gradi di giudizio della giustizia umana. Gli resta ancora il Giudice di ultima istanza. Si alza di buon mattino, anticipa il sorgere del sole, si reca nel tempio per presentare a Dio la sua “causa”. Riesce solo a bisbigliare poche sillabe, a emettere un sussurro con le ultime energie morali che gli sono rimaste: «Al mattino ascolta la mia voce; al mattino ti espongo la mia causa e resto in attesa...» (4). Penetra nel mio bisbiglio. In queste ultime udienze della vita resta solo il fiato per un bisbiglio. Non ci sono preghiere più umane dei sussurri sottovoce mescolati col pianto. Il sussurro dell’uomo umiliato e straziato è la forma pura della preghiera che commuove il cielo e la terra. Ed è la più bella preghiera laica e umanissima che ci possiamo dire gli uni agli altri, quando solo chi è capace di sussurrare tra il cuscino, il ventilatore e il cuore può penetrare bisbigli preziosi come la vita.

Quest’uomo sa di essere innocente, e denuncia e condanna i malvagi che l’hanno ingiustamente infamato: «Tu non sei un Dio che gode del male... Tu hai in odio tutti i malfattori... Sanguinari e ingannatori, il Signore li detesta» (5–7). E poi loda Dio che lo ascolta: «Io, invece, per il tuo grande amore, entro nella tua casa... Guidami, Signore, nella tua giustizia a causa dei miei nemici; spiana davanti a me la tua strada» (8–9). Bella l’immagine della strada spianata. La giustizia è anche rettitudine, cioè l’arte di rendere rette le vie, di spianare gli ostacoli, di rimuovere le pietre d’inciampo, cioè gli scandali. La via del povero è costellata di pietre e di ostacoli. Leggi, decreti dei potenti, trucchi. La giustizia dovrebbe spianare la sua strada e farlo camminare libero. La buona storia umana è una progressiva trasformazione di strade accidentate in strade dritte e poi una continua manutenzione di queste strade aggiustate perché alla prima nostra distrazione si riempiono subito di pietre e di scandali.

L’uomo del Salmo 5 usa una tipica struttura retorica del salterio: “loro ... io invece”. Loro stolti e bugiardi ... io invece innocente. Quale il senso di questo: “io invece”? Una prima lettura di questi versi porterebbe a dire che il Dio biblico esaudisce le preghiere in virtù della giustizia di colui che prega. L’intervento della giustizia di Dio sarebbe una risposta alla giustizia dell’uomo. Solo il giusto è ascoltato nella sua preghiera. Molti lo pensano, molti lo hanno sempre pensato, perché tendiamo ad attribuire a Dio le stesse caratteristiche dei buoni giudici umani. Delitti e pene, meriti e premi. Amiamo talmente la giustizia da non poter immaginare un Dio che sia meno giusto di noi. E così, prima creiamo la giustizia divina “a immagine e somiglianza” della nostra, e poi, una volta creata, usiamo questa giustizia “divina” per dare un crisma sacrale alla nostra giustizia umana, per condannare gli altri con la benedizione di Dio, fino a fondare oggi la meritocrazia sulla Bibbia e sui Vangeli. Lo abbiamo sempre fatto, e continuiamo a farlo. Noi conosciamo le leggi economiche e quelle giuridiche e, senza volerlo, abbiamo costretto Dio a diventare un commerciante e un giudice.

Ma c’è anche una seconda possibile lettura. È quella che non pone la ragione dell’ascolto della preghiera nei meriti/colpe di chi prega ma nella gratuità di Dio. Siamo salvati perché siamo buoni o diventiamo buoni perché siamo salvati? L’antica domanda al cuore della fede biblica. San Paolo cita questo salmo 5 (il versetto 10 sulla cattiveria e la menzogna degli altri) per dire qualcosa che va nella direzione di questa seconda interpretazione: «Non c’è differenza, perché tutti hanno peccato e sono privi della gloria di Dio, ma sono giustificati gratuitamente per la sua grazia» (Rm 3,13). Tutti sono giustificati gratuitamente per la sua grazia. Una rivoluzione epocale e ancora incompiuta, perché è troppo forte in noi la tentazione di leggere ciò che di buono ci accade come la ricompensa dei nostri meriti, e le cose cattive che succedono agli altri come frutto delle loro colpe. Perché ci piacciono i doni, ma di più ci piace pensarci meritevoli dei doni. Ma se Dio fosse circoscritto nello stesso perimetro della nostra idea di giustizia commerciale e giuridica non avremmo da nessuna parte qualcuno capace di far evolvere ciò che già chiamiamo giusto in quel giusto che non ha ancora questo nome.

Se e quando le comunità costringono Dio a essere giusto nelle forme e nei modi della loro giustizia umana, si auto–confinano in trappole etiche che impediscono alla giustizia loro e di Dio di diventare migliore. Sono i casi, molto frequenti nelle religioni, quando una teologia ristretta restringe l’umano. La Bibbia e il suo Dio sono invece cresciuti insieme alle interpretazioni che gli uomini e le donne hanno dato alla giustizia divina. Anche questo è reciprocità tra cielo e terra.
Le stesse pagine bibliche, gli stessi salmi, hanno detto cose diverse alle diverse generazioni di lettori. E non tanto né soltanto per lo sviluppo delle tecniche esegetiche, ma perché l’evoluzione delle nostre idee di giustizia e di amore hanno cambiato e arricchito le domande che abbiamo imparato a rivolgere a Dio e a noi stessi, e così quelle antiche parole bibliche hanno imparato parole nuove e diverse dal patire degli uomini e delle donne. La Bibbia è logos e dia–logos, ci parla solo se le facciamo domande, e attende che ogni giorno le ripetiamo: “vieni fuori”.

Ogni generazione ricomprende il “sacrificio” di Isacco e la passione di Cristo sulla base della crescita delle idee di giustizia che è stata capace di generare e far risorgere dalle sue ferite. Oggi diciamo cose diverse – e le dobbiamo dire – sui padri, sui figli, sui sentimenti che provano gli uni e gli altri di fronte ai Golgota e ai Monti Moria, perché abbiamo avuto migliaia di anni per capire cosa sia il morire e il risorgere. E se noi impariamo cose nuove sulla vita, in noi le impara anche la Bibbia che riesce così a dirci cose che non poteva dirci duemila anni fa, né ieri. Il Dio biblico per crescere ha bisogno di noi e della crescita della nostra giustizia. La parabola del buon samaritano che si prende cura dell’uomo “mezzo morto” ha detto sempre cose nuove dopo ogni guerra, dopo ogni epidemia, dopo ogni volta che siamo arrivati noi “mezzi morti” in un prontosoccorso; e potrà dire cose nuove oggi quando medici e infermieri ci hanno ampliato la semantica dell’espressione “prendersi cura”. E forse avevamo bisogno di due mesi di chiese chiuse e liturgie sospese per capire diversamente, in questa ora, le parole del Vangelo di Giovanni: «Ma viene l’ora – ed è questa – in cui i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Gv 4,23).

C’è molto del canto di Giobbe nei canti del Salterio. Il nostro canone colloca i Salmi dopo il Libro di Giobbe perché non capiamo i Salmi senza leggerli in compagnia di Giobbe, se non li cantiamo dal suo mucchio di letame, se non li intoniamo fuori dalla mura, come lui scomunicati, condannati dagli amici, in dialogo con un Dio che tarda ad arrivare. Anche Giobbe trasformò la sua discarica in una aula di tribunale, anche lui portò sul far del mattino la sua “causa” a Dio: «Con Dio desidero contendere. Ecco, espongo la mia causa, sono convinto che sarò dichiarato innocente» (Gb 13, 17–18). Allora se leggiamo la causa del salmista insieme alla causa di Giobbe possiamo imparare qualcos’altro di nuovo sul loro Dio.
L’autore del Salmo 5 porta a Dio la sua causa, e... “attende”; Giobbe chiede a Dio di scendere dal suo trono per essere fideiussore della sua innocenza, e ... attende. Entrambi hanno in comune l’innocenza e hanno in comune l’attesa di una giustizia diversa. Non sappiamo se questa giustizia più giusta arrivò per il protagonista del Salmo 5, non è mestiere del Salterio narrarci gli epiloghi delle vicende dei suoi personaggi. Conosciamo però come finì la preghiera di Giobbe: nonostante la sua innocenza, il Dio di Giobbe non venne all’appuntamento, e quando, alla fine, arrivò, non era il dio che Giobbe aspettava; non venne il Dio di Giobbe ma quello dei suoi amici e della loro teologia, un dio che si rivelò troppo più piccolo della giustizia di Giobbe che era cresciuta insieme alle sue piaghe.

Allora un messaggio nascosto in queste pagine bibliche è la benedizione dell’attesa. La fede in una giustizia diversa e più alta genera la speranza non–vana che domani possa davvero arrivare il Messia e che lo sapremo riconoscere come si riconosce un amico perché lo abbiamo atteso e desiderato. Il giorno del Messia è domani, ma questo domani benedice l’oggi e gli cambia il nome. Alla nostra generazione non manca solo la fede, le manca soprattutto la speranza e il desiderio dell’attesa.
Questa attesa in–finita della storia non è esclusiva di un club di innocenti e di giusti: è anche quella dei malvagi e dei peccatori, perché si può sempre infilare in uno dei pertugi di innocenza che ogni uomo vive in alcuni giorni luminosi della vita – anche Caino, anche Giuda, e quindi anche io, sebbene debba sempre combattere la tentazione invincibile di identificarmi con la parte giusta dei salmi. La nostra bontà è più grande dei nostri peccati.

Un’altra volta, un altro giorno, un altro uomo in crisi e depresso che voleva morire sotto una ginestra, fu salvato da un sussurro, da una «sottile voce di silenzio» (1 Re 19). Quella volta fu Dio che imparò a sussurrare, e quel bisbiglio arrivò all’orecchio di Elia e lo risuscitò. E se la preghiera fosse soltanto un incontro di sussurri?: «Tu benedici l’innocente Signore, lo corazza e lo incorona la tua benevolenza» (15).

l.bruni@lumsa.it