Opinioni

Il segno e la carne /3. Come in gioco di specchi

Luigino Bruni sabato 11 dicembre 2021

Nel matrimonio del profeta ci appare l’uomo stesso con i segreti del suo sangue e della sua anima, un uomo che, proprio per questo, è anche legato ai segreti di Dio. Una cosa simile si può comprendere solo a partire dal mondo della fede biblica, dove sangue e anima dell’uomo teomorfo sanno di essere fatti a sua immagine; e solo questo rende possibile all’uomo l’imitazione di Dio
Martin Buber, La fede dei profeti

Il Cantico dei Cantici e Qoelet sono i libri biblici dove è meno presente la parola "Dio". Due libri speculari: l’uno sulla grandezza dell’amore umano, l’altro sulla vanitas della vita. La tradizione antica li attribuiva entrambi a Solomone, perché ciascuno sottolineava una dimensione vera e sapiente dell’esistenza, che diventa ancora più vera se letta insieme all’altra. La vita si apre e si svela quando facciamo l’esperienza dell’innamoramento e dell’amore coniugale, e si apre e si svela quando la contempliamo svanire nell’uomo che invecchia, nell’amico che muore, nella insoddisfazione che accompagna e stria tutta la nostra conoscenza, quando ci poniamo di fronte al dolore che nasce dall’incompiutezza e dall’imperfezione delle nostre opere, o quando contempliamo questo mondo stupendo sapendo che non sarà per sempre perché un giorno lo dovremo lasciare. E allora di fronte all’amore e al dolore più grandi, Dio si ritrae per farci spazio, ci lascia la parola, perché è una buona parola. I profeti sono Cantico e Qoelet assieme. Lo sono nelle loro parole, lo sono nella loro carne.

«Accusate vostra madre, accusatela, perché lei non è più mia moglie e io non sono più suo marito! Si tolga dalla faccia i segni delle sue prostituzioni e i segni del suo adulterio dal suo seno; altrimenti la spoglio tutta nuda, l’espongo come il giorno della nascita, la rendo simile a un deserto, come una terra arida, e la faccio morire di sete. I suoi figli non li amerò, perché sono figli di prostituzione» (Osea 2,4-6). Nella profezia di Osea (e in ogni profezia vera) il piano biografico e il messaggio per il popolo sono legati inseparabilmente - si possono qua e là distinguere, non separare. Non si possono separare né in Osea né in noi, quando le nostre vicende personali diventano messaggio per noi e per gli altri; quando udiamo la voce di Dio che ci parla dentro una non-voce di una moglie o di un marito, quando sentiamo un amore diverso che ci raggiunge dentro il non-amore di chi dovrebbe amarci e non lo fa. Qui ci troviamo dentro una disputa, una rib, simile a quella più celebre tra Giobbe e Dio. Osea, di fronte all’infedeltà della moglie, non sceglie subito la via del ripudio e del divorzio, ma tenta un’ultima estrema azione per riportarla a casa. In Israele (e ancora oggi) il divorzio era un punto di non-ritorno, un atto definitivo. Osea tenta allora di ottenere un ravvedimento operoso della moglie. Chiama i figli in aiuto e chiede a loro di accusarla, perché in una separazione erano i figli, ieri più di oggi, a subire le conseguenze più gravi.

Questi versi noi oggi non li capiamo più, ed è bene che non li capiamo. Non li capiamo perché, anche qui, la Bibbia maturando nella storia ci ha fatto superare la sua stessa etica, facendoci capire che nessuna persona, nonostante i suoi errori e le sue colpe, può essere "spogliata tutta nuda", ridotta "a un deserto" e fatta "morire di sete"; anche perché molte persone, troppe donne, continuano a vivere le separazioni come spoliazione e deserto, e noi, diversamente da Osea, sappiamo che queste azioni sono contrarie all’uomo e a Dio. Come sappiamo che i figli vanno tenuti lontani dalle rib dei genitori, non vanno aizzati contro l’una o l’altro, perché il compito della genitorialità è proteggere i figli dalle nostre infedeltà, custodire nel loro cuore l’immagine bella della mamma e del papà per evitare che il dolore e i conflitti la corrompano. Vanno protetti dal nostro dolore – è forse questo l’atto d’amore più grande durante e dopo le nostre separazioni: continuare davanti a loro a benedire un marito o una moglie che sta, ogni giorno, maledicendo te – almeno provarci.

Ma ben coscienti di tutto ciò, non possiamo perderci la bellezza di questi versi scritti con l’inchiostro dell’anima più intima del profeta, che sono tra i suoi più belli perché tra quelli umanamente più intensi di tutta la Bibbia: «La loro madre, infatti, si è prostituita, la loro genitrice si è coperta di vergogna...Ti chiuderò la strada con spine, la sbarrerò con barriere e non ritroverà i suoi sentieri. Inseguirà i suoi amanti, ma non li raggiungerà, li cercherà senza trovarli» (2,7-9). Quante volte abbiamo rivisto Osea ripetere questo suo gesto estremo, fuori e dentro la nostra casa. Quando disperati facciamo quello che non avremmo mai voluto fare, che abbiamo sempre criticato negli altri, che abbiamo disapprovato persino nei romanzi e nei film: le/gli chiudiamo la strada con spine, facciamo barriere per non farla/o uscire di casa, le/gli chiediamo la password della posta, le blocchiamo il conto in banca. E poi ci vergogniamo.

«Allora dirà: "Ritornerò al mio marito di prima, perché stavo meglio di adesso"» (2,9). Complicarle la vita per farle capire che erano migliori i tempi passati, a farle rimpiangere i primi tempi quando eravamo felici insieme. Ma noi sappiamo che il ricordo dei tempi felici non è una risorsa da usare nei tempi della crisi, che ricordare oggi all’altro quanto ci siamo amati ieri aumenta (non riduce) la voglia di fuggire di chi quell’amore di ieri oggi non prova più, che farle rileggere i suoi messaggi e le sue e-mail piene d’amore ricevute ieri l’allontanano oggi. L’esercizio della memoria, efficace in molti casi, è anti-efficace in una coppia in crisi, se e finché il rapporto non risorge – il ricordo della fedeltà può aiutare solo se rinasce la nostalgia di futuro. Queste parole di Osea ci parlano perché vi riconosciamo le nostre parole estreme. È così che la Bibbia ci salva, toccandoci con la sua mano buona. In quel giorno quando, dopo aver letto le belle parole di Osea durante le liturgie matrimoniali, rileggiamo questi capitoli del suo libro e dentro il nostro dramma finalmente lo capiamo, perché il nostro dolore diventa l’esegeta del suo libro. E la Bibbia continua a essere il buon samaritano che bagna con vino e olio le nostre ferite.

La Bibbia è grande perché contiene, uno accanto all’altro, il Cantico dei Cantici e questo Cantico di Osea, i due canti che segnano il ritmo della nostra vita. Noi siamo più portati a pensare che le parole che prestiamo a Dio per parlarci di noi siano quelle del grande amore e dell’immensa gioia. E così ci dimentichiamo delle altre parole che nascono dal nostro dolore, soprattutto da quello speciale delle relazioni primarie ferite, che più allargano l’orizzonte dell’uomo e l’orizzonte di Dio. «Scoprirò allora le sue vergogne agli occhi dei suoi amanti e nessuno la toglierà dalle mie mani. Farò cessare tutte le sue gioie, le feste, i noviluni, i sabati, tutte le sue assemblee solenni. Devasterò le sue viti e i suoi fichi… La punirò per i giorni dedicati ai Baal, quando bruciava loro i profumi, si adornava di anelli e di collane e seguiva i suoi amanti, mentre dimenticava me!» (2,11-15).

Qui il tema del tradimento famigliare si intreccia con l’idolatria e con i tradimenti d’Israele. Ogni tentazione idolatrica assecondata è tradimento di un patto. Ma anche ogni tradimento di un patto primario è una forma di idolatria, perché invece di vivere dentro l’alleanza buona e vera, quella che salva, fa vivere e fa portare frutti, si sceglie una salvezza piccola, si preferiscono piaceri passeggeri, si rinnega la sincerità e la trasparenza per stare nel nascondimento e nel buio. Ogni tradimento è profanazione del tempio più bello per adorare pupazzi di legno dentro catapecchie, per poi scoprire alla fine che il primo e forse unico pupazzo che idolatravamo era il nostro io. Certo, oggi sappiamo che dovremmo ascoltare anche la versione di Gomer, la moglie, perché dalla storia abbiamo imparato che per capire una crisi famigliare dobbiamo ascoltare entrambe le versioni - alla Bibbia questo non interessa, il suo messaggio è diverso; ma a noi interesserebbe, perché troppe persone, troppe donne, sono "cacciate via" per non aver mai avuto la chance di raccontare la loro versione dei fatti - davanti agli uomini e davanti a Dio.

La vicenda personale di Osea ci offre anche l’occasione per capire qualcosa in più delle metafore e del linguaggio nella Bibbia. Il popolo ebraico ha certamente compreso qualcosa di nuovo sulla fedeltà umana guardando come il loro Dio fedele ha scelto, amato e perdonato il suo popolo; ma quello stesso popolo ha potuto capire qualcosa di più di Dio, della fede e della fedeltà guardando le fedeltà e le infedeltà della sua gente. Le allegorie e le metafore non sono solo tecniche letterarie, non servono solo per descrivere con più immagini e poesia ciò che già sapevamo su Dio; no, sono anche scoperta di cosa è Dio guardando cosa è una relazione, cioè cosa è l’uomo, cosa è la donna. Perché se è vero, ed è vero, che noi scopriamo l’umanesimo biblico guardando la teologia biblica, è anche vero che noi impariamo Dio guardando gli esseri umani. Questa verità dà un immenso valore alle nostre gioie e alle nostre sofferenze, ai nostri patti creati e a quelli spezzati, alle nostre relazioni felici e quelle malate, perché sono la grammatica con la quale Dio ci parla di sé. E dà davvero un infinito valore alla famiglia, quando funziona e quando si ammala, se per parlarci di sé ha chiesto a Osea di parlarci delle ferite della sua famiglia.

Ogni volta che l’umanità si espande, che la nostra capacità spirituale ed etica cresce dentro le contraddizioni della vita, stiamo anche espandendo l’immagine di Dio. E se la Bibbia per parlarci di Dio ci fa parlare delle nostre relazioni, non ci dovremo stupire se un giorno scopriamo che Dio è relazione, e che lo avevamo conosciuto un po’ grazie al nostro lessico famigliare e relazionale. Dante, al culmine della Commedia, fece l’esperienza straordinaria, poetica e mistica insieme, di scorgere nel centro della danza trinitaria il proprio volto: «Dentro da sé, del suo colore stesso, mi parve pinta de la nostra effige: per che ’l mio viso in lei tutto era messo» (Pd 33,130-132). Se noi potessimo entrare nella danza trinitaria che si svolge nella cella vinaria del nostro essere, vi troveremmo, del suo colore stesso, pinta l’effige… di Dio. È questo gioco di specchi tra l’Adam e l’Elohim la prima reciprocità della terra e del cielo.

l.bruni@lumsa.it