Opinioni

Il segno e la carne /1. Vivere il virgolettato di Dio

Luigino Bruni sabato 27 novembre 2021

Quando ho iniziato, ormai sette anni fa, a commentare il libro di Osea, ero convinto di conoscerlo abbastanza bene. Oggi penso che la ricchezza di questo libro profetico sia ancora in gran parte del tutto sconosciuta
Joachim Jeremias, Osea

La Bibbia parla molto di fede. Parla meno di fiducia, che è l’altro significato gemello dell’antica parola latina fides. Ne parla poco perché la fiducia è la sua condizione necessaria, è il suo non-detto, è l’ipotesi fondamentale con cui iniziare con profitto ogni lettura biblica. Perché la Bibbia si apre e si svela se le diamo fiducia, se le diamo credito, se le crediamo. Prima di credere alle parole contenute nella Bibbia è necessario credere alla Bibbia, perché le verità della Bibbia sono mendicanti della nostra fiducia nellaBibbia. Sta qui la tipica debolezza del Dio biblico: non può comunicarci nulla se noi prima non gli doniamo la fiducia nella sua parola. Se crediamo che non ci racconti bugie, e se crediamo alle parole dei suoi personaggi, se e fino a quando non abbiamo forti e convincenti ragioni per dubitare. Se crediamo, insomma, alle parole di tutti i suoi protagonisti, ma soprattutto a quelle dei profeti, che sono il virgolettato di Dio. Quando allora nella prima riga del Libro di Osea leggiamo: «Parola di YHWH che fu rivolta a Osea, figlio di Beerì, al tempo di Ozia, di Iotam, di Acaz, di Ezechia, re di Giuda, e al tempo di Geroboamo, figlio di Ioas, re d’Israele» (Osea 1,1), siamo invitati a credere che quanto ci dice quell’antico profeta, dal nome stupendo ("YHWH salva", simile a Isaia), è innanzitutto un fatto storico. Osea è stato davvero un profeta, ha davvero iniziato la sua attività profetica nel regno del Nord durante Geroboamo II.

Osea è l’unico profeta scrittore originario del Regno del Nord dove visse e profetizzò. È di poco più giovane di Amos, di poco più vecchio di Isaia. Operò negli ultimi tumultuosi anni di esistenza del regno del Nord, tra i 755 e il 724 a.C. circa. Osea dunque parla e scrive durante una grave crisi della sua terra, che culminerà – egli ancora in vita – con la prima deportazione in Mesopotamia. Fu quindi spettatore di un declino politico e religioso. Osea è profeta importante, forse essenziale, per quelle comunità o persone che stanno vivendo declini, crisi, che si stanno avviando verso una deportazione.
Ecco allora già svelato il perché tornare oggi ai profeti biblici, e a Osea in particolare. La profezia biblica è mappa preziosa e spesso unica per orientarsi bene nelle pericolose escursioni nebbiose, nelle discese scoscese fuori sentiero perché il sentiero non c’è o non è stato ancora tracciato. Nei passaggi difficili e rischiosi delle comunità è con i profeti che bisogna confrontarsi quotidianamente e tenacemente, da loro essere ammaestrati.

Il Libro di Osea è il primo dei cosiddetti dodici profeti "minori", sebbene non sembri essere il più antico (forse viene dopo Amos). È il primo perché Osea crea il quadro teologico nel quale vanno letti gli altri undici libri. I temi, la biografia e le metafore di Osea influenzarono Geremia, Ezechiele, e forse anche Isaia, e quindi l’intera Bibbia, Antico e Nuovo Testamento.
«All’inizio YHWH parlò a Osea» (1,2). Questo inizio del versetto 2 è importante perché inserisce le sue paradossali e tristi vicende familiari all’interno del dialogo tra Dio e Osea, e include la sua propria biografia tra le parole che Osea trasmette su comando di Dio. Da sempre si discute sulla storicità delle vicende familiari di Osea, e si continuerà a discutere e a portare nuove ipotesi, anche perché non ci sono nei testi abbastanza elementi per arrivare a una lettura unica. Allora, anche in questo caso, conviene credere a quanto ci ha detto Osea e ci hanno trasmesso i suoi discepoli. E quindi inserire queste prime parole del libro tra quelle che YHWH rivolse a Osea: «YHWH disse a Osea: "Va’, prenditi una moglie che si prostituisce e genera figli di prostituzione, poiché il paese non fa che prostituirsi allontanandosi dal Signore"» (1,2).

Se le parole dei profeti non sono favole, se non sono mito (non solo nel senso dei racconti di Omero, ma neanche in quello dei racconti mitici dei primi capitoli della Genesi), allora anche queste parole di Osea sono storia, sebbene storia in forma profetica, e quindi messaggio e segno che restano storia. Perché se l’enfasi sulla metafora e il simbolo assorbe e cancella la dimensione storica delle parole del Libro (e accade spesso), si perde il cuore dell’umanesimo biblico e della profezia, e leggere la Bibbia diventa poco interessante.
Non dobbiamo ridurre la forza della parola di Osea trasformando e trasfigurando la sua biografia solo in allegoria e metafora dell’infedeltà di Israele. Certo, nella sua storia c’è anche un messaggio allegorico per Israele e per tutte le prostituzioni della politica, dei sacerdoti e dei potenti del suo tempo e di ogni tempo; ma c’è anche la storia personale di Osea, sua moglie, i suoi figli, la sua vita. Anche perché se vogliamo prendere sul serio il significato antico della parola-simbolo dobbiamo tornare a quegli oggetti (monete o panni) che durante un patto venivano spezzati in due parti: ognuno ne prendeva una con sé affinché nel futuro giorno del riconoscimento ciascuno facesse combaciare la propria parte con quella dell’altro – a dirci, tra l’altro, che in ogni atto di riconoscimento ci sono due parti che devono incontrarsi. Nei simboli biblici c’è il messaggio di Dio, il suo pezzo di panno, ma questo suo solo pezzo è inutile se manca l’altro, quello fatto di carne e sangue di uomini e donne. Senza la verità della nostra parte di stoffa i messaggi biblici sono vanitas e fumo, e soprattutto non salvano niente e nessuno. È anche questa una differenza tra i racconti biblici e i romanzi: al romanzo manca la parte della carne, e i romanzi grandissimi sono quelli che, in qualche modo, sono riusciti a donare carne e sangue ai loro protagonisti – e così si avvicinano molto alla Bibbia, fino a toccarla e intersecarla.

Se poi confrontiamo questo racconto di Osea con gli altri grandi racconti biografici dei profeti (Isaia, Ezechiele, Geremia) ci accorgiamo subito che nel suo libro la storia familiare di Osea prende il posto del racconto del giorno della vocazione degli altri profeti. In Osea la sua vocazione assume le parole di moglie e figli. E così va presa la sua vocazione, senza toglierle nulla, neanche uno iota di paradosso. Perché è dentro il paradosso che quasi sempre Dio parla nella Bibbia. Abramo crede a una promessa di una terra e muore in terra straniera; Ezechiele riceve da Dio il compito di profetizzare e subito dopo lo stesso Dio gli fa attaccare la lingua al palato; il Figlio dell’uomo venuto per annunciare l’amore fedele di Dio che muore in croce gridando l’abbandono di Dio.

La storia di Osea è un’altra puntata di questa storia paradossale, di questa vicenda tra YHWH e noi, fatta di dolori assurdi e di salvezze sorprendenti. E allora per non perderci la parte più bella e rivelativa del libro di Osea dobbiamo pensare che veramente Osea ricevette come primo compito profetico sposare una donna infedele e adultera ("prostituta" va inteso non in senso specifico di mestiere mercenario, perché la parola ebraica sarebbe stata diversa: zònà). La biografia dei profeti era, per i loro discepoli e per il popolo, troppo preziosa per essere stravolta e profanata, fosse anche per ragioni teologiche – i discepoli e gli amici dei profeti sono anche i custodi della loro biografia per proteggerli da manipolazioni ideologiche. Per questo dobbiamo prendere questi dati familiari come qualcosa di tremendamente serio. Anche perché è parte della logica profetica: Geremia ricevette da Dio l’ordine di restare celibe, a Ezechiele Dio prende sua moglie, la "luce dei suoi occhi".
Osea non parla, non dialoga con Dio, non protesta. Parla agendo, come Noè: «Egli andò a prendere Gomer, figlia di Diblàim» (1,3). Nel dialogo tra Dio e i suoi profeti si parla soprattutto con i piedi e con le mani.

Il simbolo incarnato di Osea, simile ma ancora più paradossale dei simboli degli altri grandi profeti, ci rivela qualcosa di decisivo della logica della vocazione profetica, della Bibbia e della vita.
Il profeta è colui che dona la carne con la quale Dio scrive i propri messaggi all’umanità, che grazie a lui/lei diventano messaggi incarnati (Giudici 19,29). Il profeta prima di parlare con la bocca parla con tutto il suo corpo, con la sua vita, con la sua biografia, con la sua famiglia e con i suoi figli. Ecco un altro elemento che ci dice che nella Bibbia ai profeti non è promessa la felicità: in queste storie c’è una persona chiamata a diventare un messaggio vivo, niente di più distante dall’happiness. Ieri e oggi, perché se nella vita la ricerca della propria felicità è troppo poco, nella Bibbia è niente.

Osea ci spiega allora l’intimità di un profeta. È segno ed è carne, insieme. Parla con le parole, ma prima o poi – all’inizio, nel mezzo o alla fine della sua vita – arriva il giorno in cui diventa il messaggio che annuncia. Non lo vuole, non lo desidera: gli accade e basta. Ecco perché ricevere una vocazione profetica nei tempi delle grandi crisi è esperienza drammatica e straziante. Il profeta giorno dopo giorno prende le sembianze del messaggio, e se il messaggio è duro, severo, paradossale, i profeti diventano duri, severi e paradossali. Non lo vogliono: ci diventano e basta. Non è un bel mestiere, ma è il loro mestiere, spesso utile, a volte essenziale.

Ecco perché forse solo i profeti ci insegnano il senso della parola destino: tutti noi siamo più grandi del nostro destino, lo possiamo cambiare e torcere con la nostra libertà. I profeti no: hanno molti doni, qualche grande privilegio, ma non possono cambiare l’anima del loro destino. E se lo fanno, si perdono.
E poi con la loro radicalità assoluta ricordano a tutti noi qualcosa di universale: se abbiamo ascoltato una voce e annunciato la bellezza della povertà scelta, arriva il giorno in cui diventiamo davvero poveri, e quel messaggio diventa la nostra carne; se abbiamo sinceramente desiderato dare la nostra vita per un ideale, un giorno gliela doniamo davvero, fosse anche l’ultimo giorno. Perché è la vita, non solo la profezia, a essere segno e carne, insieme.
Senza profeti e artisti (che si somigliano molto, forse troppo) la vita sociale sarebbe solo una faccenda di emozioni, di incentivi, di interessi. La profezia la rende qualcosa di diverso, di più grande, di imprevedibile. Di tragico e di paradossale. È così che continua a incantarci, e noi a esserle riconoscenti.

l.bruni@lumsa.it