Opinioni

Il segno e la carne /6. Ma l'ingiustizia è idolatria

Luigino Bruni sabato 8 gennaio 2022

Per quanto sia importante che noi soffriamo insieme il dolore odierno dell’uomo, è ancora più importante che noi sentiamo assieme da dove venga; solamente da lì, dal fondamento, potrà esserci concessa la vera speranza di una guarigione
Martin Buber, Umanesimo ebraico

«Ascoltate questo, o sacerdoti, state attenti, casa d’Israele, o casa del re, porgete l’orecchio, perché a voi toccava esercitare la giustizia; voi foste infatti un laccio a Mispa, una rete tesa sul Tabor e una fossa profonda a Sittìm» (Osea 5,1-2). Il profeta Osea continua la sua analisi della corruzione del popolo, che, come ci ha detto (cap.4), è una corruzione idolatrica. E dopo aver individuato nei sacerdoti i primi responsabili, ora la sua denuncia si estende ai politici, agli anziani, ai funzionari della corte del re, offrendoci una profonda e originale descrizione delle forme che l’idolatria assume nella Bibbia, nella voce dei profeti, nella vita di tutti.

All’inizio e al centro c’è ancora l’idolatria dei sacerdoti, un’idolatria che conduce il popolo su sentieri religiosi e teologici sbagliati. Ma la dimensione più importante e interessante di questo capitolo riguarda l’idolatria dei politici e dei governanti, quella che si esprime nella sfera civile, sociale ed economica. Un segno che qui non si sta parlando tanto di culto e di religione sono i nomi menzionati: Mispa, il monte Tabor e Sittìm non sono luoghi di santuari di Israele (come Betel o Dan); sono probabilmente nomi di fortezze militari, e Mispa era un importante centro politico e commerciale del Nord. Osea ci dice esplicitamente che il cuore di questa corruzione politica è il non esercizio della giustizia. I dottori della legge, i politici, gli anziani di Israele, il re e la sua corte di funzionari avrebbero dovuto esercitare soprattutto il diritto, e non l’hanno fatto. Nella Bibbia la giustizia significa molte cose, il suo campo semantico è molto ampio. Qui la giustizia è la mispat, una dimensione che rimanda all’esercizio concreto del diritto e delle leggi, quindi alla giustizia sociale, civile, penale, economica, quel pilastro essenziale di ogni comunità che ha la sua radice nell’equità. Il diritto vale per ogni rapporto sociale ed economico, ma la categoria che deve proteggere come suo primo compito sono i poveri, i deboli, i più fragili. Osea grida perché i politici e i funzionari invece di liberare gli oppressi e le vittime sono diventati cacciatori e uccellatori, hanno teso trappole e lacci nei quali sono caduti proprio coloro che dovevano essere liberati e protetti. È la perversione del potere e del diritto che, da mezzi di garanzia delle persone oneste e vulnerabili, nelle mani della classe dirigente si sono trasformati in strumenti di condanna e di cattura. In tutti i popoli e in tutte le società è sempre esistita la tendenza delle classi dirigenti a usare a proprio vantaggio il potere che ereditavano, usurpavano o, più tardi, raggiungevano con il voto. Ma quando lo hanno fatto, e continuano a farlo, la politica e i governanti rinnegano la dignità del loro ministero, pervertono il senso profondo dell’autorità di cui sono investiti. In particolare negano e cancellano il diritto e la giustizia, che sono stati pensati, da Dio e dalla tradizione sapienziale, come corazza e scudo delle vittime.

Il colpo di genio di Osea è pensare e dire che questa corruzione del diritto è idolatria: «Ti sei prostituito Èfraim!» (5,3). Nella teologia di Osea prostituzione è sinonimo di idolatria. Perché la corruzione politica e giuridica è idolatria? Perché il peccato idolatrico può essere una faccenda civile, politica, giuridica e non solo strettamente religiosa e della sfera del sacro?
Nella Bibbia non c’è azione politica e giuridica che non sia immediatamente e direttamente legata all’Alleanza con YHWH. La sua laicità è diversa dalla nostra. La stessa Torah è declinata come comandamenti, come codice (del Sinai), come dono ed eredità di norme anche giuridiche. Non solo Mosè è un legislatore, anche il suo Dio lo è. E questo lo sapevamo anche senza Osea e i profeti. Nella denuncia di Osea nei confronti di Èfraim (Israele) ci deve allora essere qualcosa di più e di molto prezioso.

Innanzitutto, dobbiamo ricordarci che nella Bibbia il profeta è custode del diritto perché sa che senza proteggere la giustizia è impossibile proteggere i poveri. È il diritto la prima, e a volte unica, casa del povero, è la giustizia il suo mantello. Esiste allora un legame profondo e un’amicizia intima tra diritto e profeti. Denunciando la violazione del diritto, Osea è infatti in compagnia di Isaia, di Geremia, di Michea e di tutti i profeti, che sono le "sentinelle" (shomerim) del popolo per conto di YHWH. Sentinelle della città e del tempio, ma anche custodi del diritto, e quindi dei poveri, degli orfani, delle vedove, di forestieri, schiavi, servi, debitori, carcerati. Di tutti i marginali e degli scartati, che da periferia diventano centro quando guardiamo il mondo dalla prospettiva del diritto.

Ecco perché nei libri profetici troviamo riferimenti costanti a un vocabolario che non ha nulla a che fare con l’ambito religioso o cultuale. Debiti, usure, riscatti, monete, pagamenti, caparra, pegno... sono parole che nei profeti hanno lo stesso peso di amore, fedeltà, misericordia; perché sanno, per vocazione e per averlo imparato sulla carne propria e del popolo, che le parole teologiche più alte diventano vanitas, l’hesed diventa hevel, se non prendono la forma delle bassissime parole delle donne e degli uomini offesi e perseguitati. E perché nessuno più di un profeta sa che non c’è manipolazione più comune e tremenda di quella che nasce dall’uso di parole celesti su Dio che non siano precedute e seguite da parole di terra sugli uomini. Il profeta vero sa che il primo segnale dei falsi-profeti è la loro incapacità di difendere gli uomini e le donne perché troppo occupati a difendere Dio.

Ed è proprio qui dove si annida il virus dell’idolatria, qui si infiltra il suo veleno. Nella Bibbia, Dio è vero perché la sua fede è diversa e opposta dal culto degli idoli. L’idolo è religione di solo culto, funziona solo nel proprio terreno sacro. È un atleta che sa fare salti favolosi, ma solo a casa sua. Gli idoli non danno comandamenti, non entrano nella causa dell’orfano e della vedova, non si interessano del mantello del debitore per la notte, non difendono la vigna di Nabot. L’idolo consuma solo liturgia, il suo luogo sacro coincide col suo recinto. Il Dio d’Israele no. Ci vollero l’esilio e la forza profetica di Ezechiele e del Secondo Isaia, ma la Bibbia capì che YHWH non stava solo nel tempio, e così poté continuare a essere vivo e a operare anche lungo i fiumi di Babilonia, senza luoghi sacri.

L’Alleanza è faccenda anche di diritto, di giustizia – più della metà dei comandamenti di Mosè riguardano i rapporti tra persone. Lo shabbat è un rapporto diverso con Dio, certo, ma è un giorno diverso anche per i rapporti tra di noi, con il povero e il forestiero, con il lavoro, con gli animali, con la terra. E allora il grande messaggio di Osea è davvero molto importante, forse decisivo. Ci dice che siamo già dentro un culto idolatrico quando riduciamo la religione al solo culto, quando confiniamo Dio nel suo luogo sacro e non lo facciamo diventare ethos delle nostre relazioni, diritto e giustizia. Un dio che diventa solo culto religioso è un idolo.

E se è vero che la Bibbia, soprattutto nelle sue pagine profetiche, è anche una mappa stupenda per farci tornare a casa dagli attraversamenti dei deserti e dagli esili, allora queste parole di Osea ci parlano davvero molto e forte. Quando in una comunità prende piede un processo di declino, anche se inizia (come dice Osea) dai "sacerdoti", cioè nella sfera prettamente religiosa o spirituale, non è mai un declino puramente religioso. La sua morfologia è più complessa. La crisi investe subito la sfera organizzativa, entra nelle pratiche che toccano l’equità nei rapporti, la governance delle relazioni verticali e orizzontali, il bilancio d’esercizio, la gestione della ricchezza e della povertà, l’apertura verso i fragili, il conto in banca. Ma noi, diversamente dai profeti (o per la loro mancanza, o perché non li ascoltiamo), pensiamo che le crisi e il declino delle nostre comunità siano faccende soltanto spirituali, che dipendano dalla nostra poca o insufficiente vita religiosa. E così trascuriamo il "diritto e la giustizia", facciamo infiniti incontri e ritiri per ritornare alla radicalità spirituale perduta, e spesso finiamo anche per colpevolizzare e colpevolizzarci perché non siamo più abbastanza radicali e spirituali. Non guardiamo le "trappole e i lacci" organizzativi e relazionali della gestione del potere, pensiamo che siano cose secondarie e non quelle su cui concentrare i nostri sforzi di riforma e di rinnovamento. E così non capiamo che le idolatrie che sono penetrate nel nostro popolo si sono rivestite di prassi relazionali e comunitarie sbagliate, ed è lì che vivono, si diffondono, infettano tutto il corpo.

Anche perché diversamente da quanto accadeva al tempo di Osea, nel nostro tempo qualche volta le crisi sono incominciate da relazioni interpersonali sbagliate, ingiuste, inique, che giorno dopo giorno hanno raggiunto anche la vita più intimamente spirituale – queste infezioni partono dal corpo e arrivano al cuore, attaccano prima gli otri poi il vino. Sono crisi che non si curano finché non guarderemo ai nostri rapporti, alle nostre gerarchie, alle nostre nevrosi comunitarie. Troppe crisi diventano trappole e lacci imbattibili perché, preoccupati dal paradiso, non ci occupiamo abbastanza della terra sotto i nostri piedi. Perché scatta spesso la logica dei due tempi: prima riformiamo la vita spirituale e dopo gli aspetti pratici. Senza sapere che questa logica non è quella biblica e non è quella della vita, e non fa altro che farci sprofondare ogni giorno di più nelle nostre trappole. Le crisi si affrontano lavorando simultaneamente sull’asse verticale e su quello orizzontale delle nostre relazioni: «Con le loro greggi e i loro armenti [da offrire nei sacrifici] andranno in cerca del santuario del Signore, ma non lo troveranno: egli si è allontanato da loro» (5,6). Il culto, i sacrifici sugli altari non servono per tornare al giusto rapporto con Dio, perché servirebbe la conversione della giustizia: «La nuova luna li divorerà insieme con i loro campi» (5,7).

Le crisi comunitarie sarebbero semplici, e non ci vincerebbero quasi sempre, se fossero soltanto faccende religiose e spirituali. Sono profonde e serie perché riguardano tutta la vita, la carne e il sangue, perché imparano a pronunciare tutte le nostre parole. E se vogliamo dialogare con esse, capirle e poi provare a superarle, occorre usare tutte le nostre parole, soprattutto quelle che usiamo poco perché non le consideriamo abbastanza spirituali. Certi dèmoni si scacciano solo chiamiamoli per nome.

l.bruni@lumsa.it