Opinioni

Eccedenze e disallineamenti /9. La splendida legge del resto

Luigino Bruni sabato 27 ottobre 2018

Quando Rabbi Bunam stava per morire, sua moglie piangeva. Egli disse: che piangi? Tutta la mia vita è stata soltanto perché imparassi a morire
Martin Buber. Storie e leggende chassidiche

La Bibbia è molte cose assieme, e tutte importanti. Ogni generazione scopre in essa nuovi significati, e ne dimentica altri. Essa è anche una mappa spirituale per orientarsi nelle vicende misteriose di chi segue seriamente una voce. Non c’è infatti luogo migliore dove guardare e cercare compagnia e luce durante questi cammini. La storia e le narrazioni bibliche sono preziose e feconde anche per capire e spiegare le esperienze collettive, le promesse, gli esili, le morti e le resurrezioni di quelle comunità, movimenti e organizzazioni nati attorno a un carisma, religioso o laico. In particolare, è una mappa preziosissima e per molti versi unica per comprendere e rischiarare la notte delle grandi crisi collettive, anche se raramente viene letta e utilizzata da questa prospettiva, e così risorse essenziali vengono sprecate. Tra i molti tesori per le comunità carismatiche che restano ancora in massima parte nascosti e inutilizzati, c’è la logica profetica del resto, che attraversa molti testi biblici. Particolarmente sviluppata e potente la troviamo nel libro di Geremia, inserita dentro un contesto di grandissimo rilievo sapienziale e teologico. Questo profeta aveva ricevuto da YHWH il compito di profetizzare la fine di un tempo storico, ma i capi e le guide religiose del suo popolo non vogliono ascoltarlo e lo discreditano. Geremia ode, vede e dice che i babilonesi arriveranno presto e che il popolo sarà sconfitto e poi deportato, che inizierà un esilio in terra straniera, che durerà settant’anni. Ma mentre lui annuncia con una tenacia infinita la fine, i falsi profeti, particolarmente abbondanti a Gerusalemme e ovunque e sempre, lo smentiscono, lo accusano di disfattismo, lo attaccano e convincono i capi a perseguitarlo per farlo tacere.

Geremia non dice che è finita la storia di salvezza, né che si è spenta la promessa; dice soltanto che è finita una storia, quella grande storia secolare del grande regno, che si è spenta una interpretazione della promessa, quella che la faceva coincidere con la grandezza e con il successo. Ma mentre annuncia la fine inesorabile di quel primo mondo, con altrettanta convinzione dice che "un resto tornerà" e la storia continuerà. Riuscire nelle comunità carismatiche e nelle Organizzazioni a Movente Ideale (OMI) a capire che la prima storia, quella storia meravigliosa che ci aveva fatto sognare a occhi aperti e vedere il paradiso, è finita, che è finita davvero, è un atto etico e spirituale particolarmente difficile, soprattutto nelle comunità carismaticamente più ricche e dalla grande storia. È quasi impossibile capire e accettare che sotto quelle rovine non è finita la nostra storia, ma che è finita una storia, che è terminata soltanto la prima parte del racconto. Come è anche arduo comprendere che se vogliamo che la stessa storia continui domani, oggi dobbiamo accettare che la sua prima parte è finita davvero, che dovremo attraversare l’esilio, e poi scrivere una seconda parte del racconto che ancora nessuno conosce; che la forma e i modi con cui avevamo vissuto la promessa collettiva – quei re, quella grandezza, quel successo, quelle liturgie, quel tempio, quell’apparato religioso e quell’amministrazione del culto – non torneranno più, ma la storia continuerà perché la veste che la nostra fede aveva indossato nella prima parte del percorso non era l’unica, era solo la prima. Un giorno, per salvarsi, si deve capire che la verità di una esperienza carismatica collettiva non sta nel continuare a crescere e a raccogliere successi come nel passato, ma nel diminuire, nel diventare piccoli, sconfitti, dimenticati e abbandonati, purché quella distruzione generi un resto fedele.

Ma uno dei misteri più profondi e decisivi delle esperienze spirituali collettive sta proprio nel non riuscire a riconoscere ciò che si attende da sempre quando giunge davvero. Perché aspettiamo un messia giungere a cavallo in un ingresso trionfale, e confondiamo la domenica delle palme con la domenica di Pasqua. Le comunità conoscono solo il presente e il passato, ed è quindi naturale che per comprendere i fatti nuovi usino le categorie e gli strumenti a disposizione, che sono quelli conosciuti e appresi nella bella stagione che sta tramontando. E così affrontano l’inverno con i panni estivi, e rischiano seriamente di morire di freddo. Tra le parole di ieri c’erano anche i panni invernali, parole adeguate ad affrontare i nuovi climi. C’erano anche la mangiatoia, la bottega del falegname, il piccolo gregge, il granello di senape, il no del giovane ricco; ma quando si diventa veramente piccoli e fragili queste piccolezze e fragilità vengono lette con in cuore il ricordo dei miracoli e della primavera di Galilea, e dimentichiamo le altre parole della piccolezza, che ora sarebbero la parte davvero preziosa dell’eredità. Quasi sempre nel patrimonio spirituale originario delle comunità è già presente la benedizione della sconfitta. Nei tempi dell’abbondanza e del successo quelle parole sulla forza della debolezza, quella saggezza del diventare migliori mentre diventiamo più piccoli, ci hanno commosso, convinto e aiutato a superare crisi personali. Ma quando le parole della buona fragilità diventano carne collettiva non vengono ricordate né riconosciute. Le avevano capite e valorizzate molte volte per leggere le nostre vicende individuali, ma ora non riusciamo a farle diventare luce per il presente e il futuro dell’intera comunità.

In realtà, in questi momenti basterebbe ascoltare i profeti che, se non sono stati già uccisi, fanno naturalmente parte della popolazione delle comunità carismatiche nei tempi delle crisi. Sono quelle persone che hanno per vocazione e compito la capacità di farci ricordare le parole giuste, e di donarci alcune poche categorie nuove indispensabili per comprendere e affrontare la nuova epoca. La prima categoria nuova che ci offrono è la rivelazione della inadeguatezza delle categorie con le quali ieri leggevamo la crescita e il successo, perché oggi sono obsolete e vanno cambiate. Questa è la buona notizia più importante, perché è la pre-condizione di tutte le altre. Poi ci dicono che ci attende il tempo dell’esilio, e infine che un resto tornerà. Sulle strade che portano a Babilonia e a Emmaus non dobbiamo imparare il senso delle tre tende del Tabor e delle parole del Sinai, ma quello della devastazione del tempio e delle tre croci del Golgota. Questi nuovi significati da imparare nelle strade della delusione sono declinazioni delle eterne parole dei profeti: questa storia è finita, ma non è finita la nostra storia, perché un resto tornerà. Ma perché il resto fedele continui la corsa, oggi dobbiamo accettare la realtà della fine e, soprattutto, non credere a chi ci dice che la crisi passerà e continueremo come prima. Perché, anche e soprattutto qui, sempre potente e convincente è l’azione dei falsi profeti che cercano di persuaderci che chi ci sta annunciando la fine non è un profeta da ascoltare, ma un ciarlatano e un nemico del popolo, perché diversamente da quanto annuncia presto ci sarà il grande miracolo che salverà noi e il nostro "tempio", e tutto tornerà come ieri. Ci portano evidenza empirica che in fondo le cose non vanno così male, che qua e là ci sono segnali di ripresa, che la grande crisi sta passando, e ci invitano a guardare avanti con il loro ottimismo (che è l’opposto della speranza biblica). Le consolazioni dei falsi profeti danno sensazioni piacevoli e non fanno sentire il dolore, perché sono l’oppio delle comunità; quelle dei profeti sono dolorose e spietate, ma sanano e fanno vivere.

Il popolo di Israele ha ascoltato i falsi profeti. Però un resto ha raccolto le parole dei profeti veri, e al ritorno dall’esilio non ha conservato i libri dei falsi profeti, ma quelli di Geremia e degli altri profeti. I profeti non sono ascoltati nel loro tempo, è questo il loro compito e destino; ma se un resto fedele salva le loro parole, la loro profezia vera potrà continuare. Il resto profetico non è allora un semplice gruppo di superstiti, né una élite di illuminati. Molte comunità hanno avuto superstiti, ma non hanno avuto un resto profetico. Questo è un resto credente, composto da quei pochi che nel tempo delle rovine e dell’esilio hanno continuato a credere nella stessa promessa che ieri si era rivestita di successo e gloria, e che quindi sa leggere la sconfitta e l’esilio come mistero di benedizione. È l’esegeta onesto delle molte parole delle comunità. È il germoglio che spunta sul tronco tagliato, e fa continuare la vita. È chi crede nel tempo della delusione che non ha creduto in un’illusione, perché l’illusione (che è reale) non era la promessa, ma pensare che essa coincidesse con il suo primo rivestimento di grandezza. È chi crede che quella fine è anche un nuovo inizio, che quel grido sta partorendo il suo futuro, tutto diverso. È il nome del figlio. Seariasùb, cioè "un resto tornerà", è anche il nome del figlio di Isaia (Is 7,3). Il resto fedele è il corpo risorto con le stigmate della passione, che restano perché erano vere. I falsi profeti non credono in nessuna resurrezione, ma cercano solo di riesumare il cadavere. Sono eredi dei maghi e degli aruspici egiziani che cercavano di replicare artificialmente le piaghe, ma le finte piaghe non preparano nessuna vera apertura del mare.

Infine, la meravigliosa legge del resto è anche una legge fondamentale del cammino esistenziale della persona. Partiamo da giovani credendo, amando e sperando una vita pura, mite, povera, coronata da tutte le virtù, e ci aspettiamo tutte le bellezze della terra e del cielo. Non saremmo mai partiti senza questa promessa vera e impossibile. Se abbiamo provato a restare un po’ fedeli a quella prima voce, da adulti e da vecchi scopriamo che solo un "resto" di quella promessa è rimasto vivo. Ci ritroviamo soltanto con un po’ di povertà, o con un po’ di mitezza, o con una speranza ancora viva nonostante le rovine del sogno. E un giorno capiamo che ci siamo salvati proprio per quel piccolo resto è vivo. Perché abbiamo fatto bene il nostro lavoro, perché siamo riusciti ad amare molto una sola persona invece di amare poco molte persone, o perché almeno una volta abbiamo avuto la fede per dire "vieni fuori" e un amico è uscito dal suo sepolcro. E poi impariamo che lì era tutta la promessa, custodita in quel piccolo resto credente e fedele.

l.bruni@lumsa.it