Opinioni

L'anima e la cetra /25. Doni che chiamiamo meriti

Luigini Bruni sabato 19 settembre 2020

Sono "figli della giovinezza" perché doveva affrettarsi a generare, chi era destinato a morire tra i venticinque e i trenta. Premio povero, da AT, da deserto e lance intorno alla casa. Per il filosofo, ieri e oggi, nient’altro che chiodi nella carne
Guido Ceronetti, Il libro dei salmi

L’eccedenza è una delle leggi auree della vita. È madre della generatività, sorella della generosità. Non si porta frutto senza seminare a larghe mani, senza gettare una grande parte del buon seme tra le spine, lungo la strada e in mezzo ai sassi, perché se volessimo seminare solo in quello che pensiamo essere il terreno buono non nascerebbe nulla di veramente buono. Il terreno buono può esistere solo tra i roveti e le rocce, ed è raggiunto da chi è disposto a sprecare molta semente nel suo lancio eccedente. Per sperare che dalla nostra comunità nasca un profeta vero dobbiamo generarne dieci falsi, per avere uno studente eccellente dobbiamo farlo crescere accanto a mille ordinari, per generare un atto di agape dobbiamo attenderlo mentre matura mescolato con i nostri egoismi. E la parte sprecata è necessaria come la parte, molto più piccola, che genera. Ogni avarizia è sterile, tutte le magnanimità sono feconde.

Ma l’eccedenza più importante non è quella che esce dal nostro cuore, è quella che vi entra. È quella che riceviamo non quella che doniamo, è quella che vediamo accadere in noi e attorno a noi, quel pane che nutre noi e i nostri amici "mentre dormiamo". Quando un giorno finalmente capiamo che le cose più belle che hanno benedetto la nostra vita non sono frutto del nostro impegno, ma solo e tutto dono, solo e veramente grazia, solo e sempre provvidenza. L’intelligenza, i talenti decisivi, la moglie o il marito, le figlie e i figli, gli amici, la comunità, la salute, il senso e la gioia per la vita interiore, riuscire a commuoversi per una poesia ... non sono entrati nella nostra vita per qualche nostro merito: ci hanno semplicemente trovato sulla traccia di una misteriosa libertà amorosa. L’essere "terreno buono" non è merito nostro – il terreno non si coltiva, non si cura né si concima da solo. Semplicemente è. Ed è la prima radice della gratitudine.

Questa eccedenza è il cuore dei Salmi 127 e 128, che sono al centro della serie (dal 120 al 134) detta "del pellegrino": «Se il Signore non costruisce la casa, invano si affaticano i costruttori. Se il Signore non veglia sulla città, invano veglia la sentinella. Invano vi alzate di buon mattino e tardi andate a riposare, mentre voi un pane di fatica mangiate, l’amico di Dio mentre dorme lo riceve» (Salmo 127,1-2). In questi versetti noti e belli il salmista afferma la priorità dell’eccedenza della grazia sui nostri meriti. Questo incipit, questa successione di "invano" che tanto ricorda Qoelet (libro che la Bibbia attribuiva, come il Salmo 127, a Salomone) è una delle più belle spiegazioni di cosa sia la gratuità/grazia. Per capirlo dobbiamo continuare la lettura della seconda parte del Salmo 127 e poi proseguire con il 128: «Eredità del Signore sono i figli, il salario è il frutto del suo grembo. Come frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza. Beato l’uomo che ne ha piena la faretra» (127, 3-5).

Qui torna la grande categoria biblica della benedizione, sviluppata nel salmo successivo: «Beato l’uomo che teme il Signore e cammina nelle sue vie. Vivrai del lavoro delle tue mani, sarai felice e godrai d’ogni bene. La tua sposa come vite feconda nell’intimità della tua casa; i tuoi figli come virgulti d’ulivo intorno alla tua mensa. Così sarà benedetto l’uomo che teme il Signore» (128, 1-4). La felicità biblica, diversamente dalla tradizione moderna che l’associa al piacere e alle sensazioni, rimanda alla fecondità e alla generatività, presente anche nel latino felicitas (che il prefisso fe affratella a feto, femmina, fertile).
Ma in questa coppia di Salmi c’è molto di più. C’è un’idea teologica fondamentale della Bibbia, secondo la quale la felicità, e quindi i beni e i figli, è benedizionedi Dio. Questa equivalenza tra felicità terrena e benedizione divina non è solo fondamentale e centrale nell’etica e nello spirito dell’economia moderna, ma è anche al centro del buonsenso e della saggezza delle comunità e delle famiglie – il salmo 128 è il più letto nelle liturgie matrimoniali ebraica e cristiana.

Ma è proprio in questa splendida serie di beatitudini che si nascondono insidie che sono ancora al centro dell’umanesimo occidentale. Troppo spesso, infatti, abbiamo letto e leggiamo questi due salmi amputati dei primi due versetti del 127, e così tutto il discorso sulla benedizione si falsa e si corrompe. Nella Bibbia si può parlare dei beni come benedizione perché prima c’è la certezza morale che a un livello molto più profondo i beni sono dono. Dire che chi "costruisce la casa" non sono i costruttori ma "il Signore", significa riconoscere che anche nelle cose più concrete e quotidiane, dove è evidente che siamo noi con il nostro lavoro ad aggiungere mattone su mattone, a un livello più profondo e quindi più vero quei mattoni e quel sudore sono grazia, sono provvidenza.
E qui si deve riaprire un discorso mai concluso sui meriti e sulla grazia. Quando noi vediamo che qualcuno ha successo, in una o più delle sue molte forme, è molto raro che non riconosciamo in quel successo anche una certa dose di merito personale. E così, pur attribuendo un ruolo alla fortuna e alle circostanze favorevoli, prendiamo la parte di merito presente in quel successo e la facciamo diventare il punto di appoggio con cui sollevare l’intera struttura sociale di ricompense. E poi, per amore di simmetria, seguiamo la stessa logica per gli insuccessi e i fallimenti, poiché sebbene dietro a un reato o a una sventura ci siano sfortuna e circostanze sfavorevoli, una qualche percentuale di colpa soggettiva c’è. La isoliamo e la facciamo diventare il criterio principale per ordinare le pene e il mondo. Non è poi da escludere che gli esseri umani sentano il bisogno di un sistema di colpe per rendere legittimi i meriti, perché in un mondo dove si dicesse che le sventure dipendono troppo dalle circostanze sfavorevoli e troppo poco dalla colpa soggettiva, non ci sarebbero neanche le basi etiche per attribuire ai meriti i nostri successi.

Ma è proprio qui che i primi due versetti del Salmo 127 diventano tremendamente seri. Prendiamo il caso di Giovanni, quel collega economista particolarmente brillante. Ha fatto un’ottima carriera, ha raggiunto successo e ricchezza. Viene da una famiglia povera, ha dovuto studiare molto per la laurea e poi il dottorato. I suoi genitori hanno fatto sacrifici per farlo studiare, prima in Italia poi negli Usa. Ha vinto molti concorsi, rivelandosi sempre il migliore... È difficile negare al suo merito una buona o grande parte del suo successo. Poi però guardiamo meglio, e scopriamo che anche questo ragionamento lineare e in genere non-controverso si complica e forse cambia molto. Ci accorgiamo che Giovanni è nato in una famiglia che gli ha voluto bene, poi ha studiato gratis per oltre vent’anni, ha avuto qualche ottimo insegnante che ha creduto in lui, è cresciuto in un ambiente sereno e pieno di stimoli. E se ha studiato molto per vincere concorsi e scrivere articoli scientifici, anche quella sua capacità di studiare e di impegnarsi era in buona parte dono, perché se l’è ritrovata dentro come frutto di tutta quella vita eccedente – si diventa poveri anche perché mancano le possibilità di impegnarsi.

Se Giovanni fosse cresciuto altrove, quello stesso Dna non avrebbe avuto le condizioni per poter studiare molto e avere successo. Tutto questo non per sminuire, umiliare o svalutare il talento e la virtù di Giovanni, ma per sottolineare che prima c’è qualcos’altro, un’eccedenza che ha costruito per lui e con lui la sua "casa" e prima ancora i suoi talenti.
Quando dimentichiamo questo costruttore invisibile – e lo facciamo sempre più – nascono troppo velocemente teologie, sociologie ed economie della prosperità, che mentre lodano e legittimano eticamente e religiosamente successo e meriti, delegittimano religiosamente i perdenti, finiscono per leggere i non-talenti come non-meriti, fino a giustificare moralmente la diseguaglianza; e per poter chiamare benedetti i vincenti devono chiamare maledetti i poveri.
Ma non possiamo fermarci qui. Tutto questo discorso non ci soddisfa ancora. Me lo ha fatto capire mia nipotina Antonietta con la sua teologia essenziale mentre dicevamo la preghiera prima di pranzare: "Noi ringraziamo Dio per il cibo, ma come pregano i bambini che il cibo non lo hanno?". Ringraziare Dio e la vita per le nostre benedizioni che senza merito abbiamo in dono, non è sufficiente per giustificare Dio di fronte a chi quei beni non li ha. Ogni uomo religioso che attribuisce le proprie benedizioni a Dio tende (quasi) inevitabilmente a separare Dio dalla parte maledetta del mondo. «Mia madre mi ha fatto prostituire da quando avevo otto anni: se incontro Dio gli voglio sputare in faccia», ha detto disperata una giovane donna brasiliana a un mio amico missionario. Se associo la grazia di Dio ai miei doni, come faccio a salvarlo dalle disgrazie degli altri?

Un certo ateismo onesto è nato perché non riusciva a trovare una risposta convincente a questa domanda, e ha preferito uccidere Dio per salvare i poveri. Qualcun altro è riuscito a salvare la fede, ma ha letto questi salmi seduto sul mucchio di letame accanto a Giobbe o sopra il Golgota sotto il crocifisso. E poi un giorno, che arriva sempre troppo tardi, ha capito che la sua vera benedizione è l’aver finalmente compreso che quelle ricchezze e quei talenti li ha ricevuti per usarli per liberare chi ha ricevuto solo sofferenze e mali. E gli è nato dentro un bisogno irrefrenabile di scendere lungo le strade e sotto i portici a servire colazioni, per cercare di far fiorire qualche "grazie" vero dopo troppe imprecazioni. E, mentre diventava dono incarnato, dire ai poveri: non siete maledetti. Dirlo, ripeterlo, e non smettere più, fino a donare la vita.

Dedicato a don Roberto

l.bruni@lumsa.it