Opinioni

La riforma dei «Lep». L'ora di rendere effettivo il diritto alla maternità

Mara Carfagna mercoledì 28 aprile 2021

L’occasione nella riforma dei «Livelli essenziali delle prestazioni» Caro direttore, mi è piaciuto il titolo di ieri del vostro giornale: «Ci giochiamo tutto». È vero, l’Italia con il Pnrr si gioca tutto, non solo sotto il profilo della ripresa economica ma anche sul piano del 'restauro' di alcuni diritti sociali, disattesi o addirittura inesistenti in larghe parti del Paese. Uno dei passaggi meno commentati ma più rilevanti del nostro Recovery Plan (e della replica di ieri del premier Mario Draghi) riguarda la riforma dei Lep, i «Livelli essenziali delle prestazioni» che la Costituzione obbliga a indicare ma che nessuno, negli ultimi vent’anni, ha mai provato a mettere nero su bianco.

Voglio citare testualmente quel passaggio del Piano, perché aiuta a comprendere l’importanza di questo capitolo per due questioni che mi stanno molto a cuore, il diritto alla maternità e l’occupazione femminile: «Un’ulteriore azione di riforma riguarda la definizione del livello essenziale delle prestazioni di alcuni dei principali servizi alla persona, partendo dagli asili nido, in modo da aumentare l’offerta delle prestazioni e cura della prima infanzia». Ho fortemente promosso questo impegno, e sono al lavoro fin dal giorno dell’insediamento per realizzarlo.

L’ho fatto per una ragionata consapevolezza: nidi e assistenza sociale sono, al tempo stesso, un potenziale bacino di occupazione per le donne, un’infrastruttura che consente alle donne di conservare (o cercare) lavoro e un presidio contro la povertà educativa e materiale dei bambini. Proprio ieri un rapporto promosso da Openpolis e dall’impresa sociale «Con i bambini» ci ha dato la misura dell’insopportabile divario di cittadinanza che divide Nord e Sud, aree metropolitane e aree interne nel sostegno alle madri e all’infanzia. Mi limito a riportare il caso-limite: ogni 100 bambini a Bolzano ci sono 70 posti negli asili nido, a Catania solo 5. Stabilire una quota minima sotto la quale nessuno possa scendere, e ovviamente finanziarla, è la sola strada per evitare che gli stanziamenti siano insufficienti, e soprattutto che siano assorbiti da chi ha già molto a discapito di chi non ha nulla.

La necessità di migliori infrastrutture sociali è solitamente collegata nel dibattito pubblico agli indici di occupazione femminile e rivendicata come via maestra per un’effettiva parità. Istanza sacrosanta. Ma è ora di riflettere anche su una questione più grande, che chiama in causa qualcosa di più alto e inalienabile nella sfera dei diritti umani: il diritto alla maternità. Mi chiedo quante giovani donne del Sud o delle aree interne rinuncino a un figlio, pur desiderandolo, perché non saprebbero 'a chi lasciarlo' mentre sono in ufficio, cercano di conquistarsi una promozione facendo straordinari, accudiscono parenti non autosufficienti (sì, c’è anche questo tra i doveri legati alla mancanza di sostegni alla famiglia).

Ogni statistica europea ci dice che, dove ci sono più servizi, le donne lavorano in maggior numero, le famiglie sono economicamente più forti, nascono più bambini. Il «Piano nazionale di ripresa e resilienza» per me è anche questo. Vorrei contribuire a realizzare un’Italia dove dire sì alla maternità sia facile ovunque, anche dove oggi è difficilissimo. Un’Italia che consenta a tutte – non solo alla minoranza che 'può permetterselo' – di essere donne e lavoratrici, donne e professioniste, donne e imprenditrici. Dove vivere al Sud o in un Comune minore non costituisca una specie di 'peccato originale' da scontare con una sorta di accesso attenuato ai diritti costituzionali, e persino ai diritti umani.

Ministra per il Sud e la Coesione territoriale