Opinioni

Lettere. L'ora di religione per i più piccoli è una risposta alle loro domande

le nostre voci di Marina Corradi mercoledì 1 novembre 2017

Caro Avvenire,
ho una nipotina di tre anni e mezzo che quest’anno inizia a frequentare la scuola materna. I genitori hanno deciso di farle frequentare l’ora di religione soltanto per non crearle problemi di discriminazione con i compagni di classe e anche per l’assenza di un valido programma sostitutivo che quella scuola non è in grado di assicurare. Diversamente avrebbero, e io con loro, preferito un’alternativa alla religione. Mi chiedo infatti come sia possibile parlare di religione a creature di quell’età senza rischiare di far danni. Proporre loro concetti già ostici per un adulto, cercare in qualche modo di accostarli al mistero senza turbarli con visioni pseudometafisiche, presentare simbologie spesso crude, sempre incomprensibili. Credo che sarebbe molto più utile impiegare quel tempo per curare altri aspetti dell’educazione, magari – perché no – quella fisica. Con assai più benefici per un bambino di pochi anni che chiede risposte chiare a domande quasi sempre assai semplici e sempre maledettamente serie. Oppure, se proprio si vuol introdurre qualcosa di alto, raccontargli qualcosa del Gesù di Renan. Grazie dell’ascolto.

Bruno Stefanelli

«Mi chiedo infatti come sia possibile parlare di religione a creature di quell’età senza rischiare di far danni», scrive il signor Stefanelli. Vorrei rispondere non da giornalista ma da madre di tre figli, che ora sono grandi. Ricordo molto bene però che quando erano piccoli ciò che mi meravigliò di più – io, senza fratelli minori, ero ignara di bambini – era, in loro come credo in ogni bambino, una naturale apertura al mistero della vita e del mondo. Una precoce inclinazione a domandare, di fronte alla realtà, 'da dove' veniva ciò che avevano davanti. Ricordo un figlio di neanche quattro anni che una notte al mare, sotto al cielo stellato, in braccio a me, guardando in su, mi domandò a bruciapelo: «Ma le stelle, chi le ha fatte?». Non 'cosa' sono, o 'a cosa' servono, ma 'chi' le ha fatte: che è la domanda dei popoli primitivi, è la domanda ancestrale su un Creatore che sta all’inizio di ogni forma di religiosità. Nell’esperienza poi con tre figli ho conosciuto meglio questa domanda che scaturisce facilmente da un bambino piccolo, solo che lo si stia ad ascoltare. L’arrivo di un nuovo fratellino provoca ulteriormente questa domanda: dov’era, prima, quel bambino piccolissimo, ma già perfettamente formato? Nella pancia della mamma, gli si può rispondere semplicemente. Sì, ma prima ancora? Davanti alla vetrata di una nursery trovarsi a dire a un figlio: guarda quei bambini, di loro nove mesi fa non c’era nulla e ora sono vivi, pensa che mistero. E non so nemmeno se rispondere a certe domande sia già un familiare 'insegnare religione', o semplicemente non censurare una domanda originaria che nei bambini piccoli è facilmente trasparente, e emerge, commovendo anche chi queste domande se le era da tempo scordate. Tanto che io mi chiedo se ho insegnato qualcosa ai miei figli, o se non sono stati piuttosto loro a riportare me alle domande fondamentali. Non c’è niente di «incomprensibile» nel rispondere a un bambino che chiede chi ha fatto le stelle, né nel parlargli di un Padre, e di Maria che ha messo al mondo suo Figlio per amore degli uomini. Lo fanno da millenni le madri e i padri cristiani, con poche semplici parole tramandate la sera, prima di mettere i bambini a letto. Bambini che crescono sentendosi amati, e voluti da quel Padre. È una cosa semplice, è come fare una carezza o dare da mangiare. Di certo qualcosa di meno intellettuale di un’opera di Renan, che forse a quattro anni è eccessiva. Ed è già, comunque, una scelta di parte, visto che il Cristo di Renan è esclusivamente un uomo. Sarebbe contraddittorio, mi pare, nell’ora di religione per i più piccoli già escludere a priori la divinità di Gesù Cristo.