Opinioni

Lo specchio incendiato. Amazzonia, il «polmone del mondo» e noi tutti

Stefania Falasca sabato 24 agosto 2019

No. Il Back country, il Paese lontano, non è più così lontano. Tocca tutti. Come la notte che in pieno giorno lunedì a San Paolo del Brasile si è stesa improvvisa sulla vita dei suoi 30 milioni di abitanti facendo piombare il centro finanziario del Paese in un’oscurità surreale. È stato l’urlo nero di un’agonia: quello dell’Amazzonia distante da questo Stato del sud cinque ore d’aereo. Le prime tenebre sono arrivate con nuvole gonfie di un fumo denso che hanno rovesciato sulla megalopoli pioggia torbida e puzzolente contaminata dai resti della combustione: quella di un milione e ottocentomila ettari di foresta pluviale andati in fumo.

I dati del National Institute for Space Research parlano da soli: da gennaio gli incendi nell’aerea amazzonica sono aumentati del 67%. Per incrementare e ampliare il settore agricolo è il Governo federale stesso a incoraggiare l’uso della combustione estesa e intensiva. A causa del disboscamento massivo l’Amazzonia secondo fonti autorevoli sarebbe diminuita del 20% negli ultimi 12 mesi. E così oggi, con una deforestazione equivalente alle dimensioni della Colombia, la più grande foresta pluviale della terra è vittima della maggiore distruzione artificiale di ogni tempo. Le fiamme bruciano sotto gli occhi di tutti il polmone del mondo, bruciano il cuore della Casa comune.

E non solo perché il suo insieme è un bioma, un sistema vivo, un regolatore climatico globale che mantiene l’umidità dell’aria da cui si origina un terzo delle piogge totali. L’ambiente amazzonico ha per noi un’importanza inedita per due motivi: per l’impatto delle sue risorse sull’ecosistema globale e perché la gestione di questo territorio può divenire paradigmatica per il resto del mondo. E se l’Amazzonia è un’enorme sistema in grado di assorbire l’anidride carbonica dall’atmosfera, le ragioni principali della sua importanza sono la funzione di generatore d’acqua dolce, che raggiunge il 20% della produzione planetaria, e la ricchezza di biodiversità, che la rende un luogo strategico per la vita sulla Terra. La foresta e l’acqua vanno sempre insieme.

Ma un simile patrimonio è oggi minacciato dalla deforestazione, dall’inquinamento letale dei fiumi e dai progetti di grandi infrastrutture che rendono evidente quanto la nostra Terra non sia più in grado di sopportare simili distruzioni e l’intervento predatorio da parte di un’attività umana irresponsabile. La causa profonda della crisi è strettamente collegata con il modello dominante di sviluppo adottato che l’enciclica Laudato si’ indica con l’espressione di «globalizzazione del paradigma tecnocratico». Modello che induce a considerare il pianeta alla stregua di una merce. E come tale può essere sfruttato, degradato e depredato senza scrupoli e senza rendere conto a nessuno, per accumulare denaro.

Il risultato nefasto di questo atteggiamento è la più grave crisi climatica e socio- ambientale mai sperimentata dall’umanità. Questo spirito insaziabile e prepotente ha ormai già annientato una parte importante dell’enorme ricchezza amazzonica e minaccia ciò che è riuscito a sopravvivere. Il tipping point dell’Amazzonia, il punto di non ritorno fissato dagli scienziati, superato il quale la sua distruzione sarà irreversibile, è il 40% della deforestazione. Siamo già al 20. Non possiamo continuare a ignorare questi flagelli. Non sono solo cronaca. Sono l’ultimo allarme che non può essere negato né contestato da analisti e profeti sulla riva sinistra e destra dello spettro ideologico e politico, se vogliamo davvero garantirci un domani utile e giusto.

In questo momento, fatti simili ricordano a noi tutti – uomini e donne d’altre latitudini – che non siamo i padroni assoluti del pianeta. E che non si può più lasciare l’Amazzonia all’arbitrarietà nefasta del bullismo politico di singoli governi. Non si può più permettere che l’Amazzonia sia terra senza legge, il luogo per eccellenza del brigantaggio di coloro che uccidono natura e uomini con la stessa indifferenza e convinzione. È tempo perciò di spezzare il paradigma che per secoli ha visto in questa regione uno spazio vuoto, una dispensa inesauribile da saccheggiare per soddisfare le brame di interessi esterni.

Nel contesto della crisi socio-ambientale mondia-le, papa Francesco che ha convocato un Sinodo sull’Amazzonia, aveva già citato esplicitamente questa regione cruciale come luogo da curare in modo particolare perché determinante per la vita, invitando a volgere lo sguardo al pianeta ferito e devastato dall’avidità umana e dal consumo fine a se stesso. ll 19 gennaio dello scorso anno a Puerto Maldonado, in Perù, aveva visto oltre e lontano: «Non possiamo disporre dei beni comuni secondo le pretese dell’avidità e del consumo. È necessario che esistano dei limiti che ci aiutino a difendere noi stessi da ogni tentativo di distruzione massiccia dell’habitat che ci sostiene e ci fa vivere ». Ecco perché l’Amazzonia non è un mondo altro, lontano ed esotico. È lo specchio del nostro. Ed è una questione di vita o di morte. Nostra, loro, di tutti.