Opinioni

Reportage. L'Iran non teme le sanzioni e cerca gli Usa

Riccardo Redaelli mercoledì 25 febbraio 2015
Una visita a Teheran gioverebbe molto a tutti quelli che – negli Stati Uniti e altrove – immaginano un Iran messo in ginocchio dalle sanzioni e dal crollo del prezzo del petrolio e che, quindi, auspicano l’imposizione di nuove misure finanziarie contro quel Paese. Ufficialmente per obbligarlo a cedere nei negoziati sul nucleare che si trascinano da tempo; in realtà, neppure troppo velatamente, con la segreta speranza di vedere crollare l’odiata Repubblica islamica. È il vecchio sogno della destra repubblicana e di Israele, che tuttavia sembra molto lontano dall’avverarsi. Non perché le sanzioni economiche non abbiano colpito duramente l’economia iraniana; e neppure perché il regime islamico goda di molta popolarità all’interno. Semplicemente perché le cose (e l’economia in particolare) in Iran sono sempre più complesse di quanto appaia a prima vista, e non sembra esservi un’alternativa pronta a sostituire il sistema nato dalla rivoluzione popolare del 1979.  Nessuno, a Teheran, nega la crisi ben evidenziata dai dati macro-economici: calo del prodotto interno lordo, drastica riduzione degli introiti petroliferi, alta inflazione, tagli di bilancio a cui il governo è costretto, riduzione degli investimenti. Né si possono negare le difficoltà dei ceti medi e medio-bassi. O gli effetti collaterali delle sanzioni, evidenti nelle difficoltà di reperire medicine occidentali o nel peggioramento dell’inquinamento della gigantesca capitale. Conseguenza, quest’ultimo, della necessità di impiegare il petrolio invenduto a scapito del meno inquinante gas, e le benzine nazionali di mediocre qualità. Eppure, per quanto le sanzioni mordano, siamo ben lontani dal collasso. La guida suprema, ayatollah Khamenei, ha invocato l’attuazione di una melodrammatica «economia di resistenza», il cui nome soddisfa la sua passione per i toni rivoluzionari e di patriottica lotta contro i complotti dell’Occidente. Più banalmente, il governo del moderato presidente Rouhani, taglia un po’ i dispendiosissimi e irrazionali sussidi distribuiti a pioggia (la benzina è quasi raddoppiata, ma ancora supera di poco i 20 centesimi di euro), cerca di razionalizzare un sistema economico inefficiente e corrotto, e si affida al laissez-faire dei ceti produttivi e commerciali iraniani.   Per quanto rallentati, a dispetto delle sanzioni, continuano gli investimenti pubblici, come l’ampliamento della rete delle metropolitane o la costruzione dell’avveniristica monorotaia nella 'città santa' di Qom. E basta un tour nei quartieri ricchi a nord della gigantesca Teheran (una città di quasi 15 milioni di abitanti) per notare come la selvaggia speculazione edilizia non si sia fermata, ben evidente con le centinaia di nuovi grattacieli pronti a ospitare migliaia e migliaia di nuovi appartamenti da milioni di dollari. Soldi spesso generati proprio dalle sanzioni, che favoriscono le speculazioni, il contrabbando e un malsano intreccio d’interessi fra le ricche famiglie del bazaar con le società economiche legate al regime, e in particolare ai potenti pasdaran. Un intreccio di affari semi-legali, o completamente illegali, che si dispiega come un’enorme ragnatela in tutto il Medio Oriente, da Dubai alla Turchia, fino a Cipro, Malta e le tante piazze di dubbia reputazione della regione. Paradossalmente, le sanzioni ingrassano la parte peggiore del regime. Aumentando il risentimento nel resto della popolazione. E non a caso si dice che dietro l’opposizione ai negoziati sul programma nucleare da parte degli ultra-radicali e di alcune parti dei servizi di sicurezza vi sia anche il timore di veder svanire queste lucrose speculazioni. Sebbene la sola lettura economica non sia sufficiente: chi cerca di boicottare i negoziati lo fa anche per indebolire il governo moderato ed evitare una ripresa del movimento riformista. Fatto che avviene, specularmente, anche negli Stati Uniti: le mosse dei repubblicani per far fallire l’accordo che Obama e Rouhani stanno faticosamente cercando di raggiungere si spiegano più con la volontà di negare un clamoroso successo diplomatico al presidente democratico che con dubbi sulle reali intenzioni iraniane. Il problema del governo di Teheran è che non esiste un 'piano B': il presidente Rouhani e il suo ministro degli Esteri, Zarif, hanno puntato tutte le loro carte fin dall’inizio sul raggiungimento di un accordo e sulla fine (almeno parziale) delle sanzioni. Dovessero mancare questo obiettivo, il loro flop sarebbe clamoroso e dalle conseguenze imprevedibili. Per ora essi godono ancora del sostegno – per quanto incerto – di Khamenei, che interviene regolarmente a sconfessare le critiche dei conservatori. Ma non vi è dubbio che la guida suprema non esiterebbe a fare del presidente il capro espiatorio di un nuovo insuccesso.   E più passa il tempo, più diventa probabile un flop diplomatico, nonostante la volontà dei due leader di firmare un compromesso. Si dice che, dal punto di vista tecnico, le distanze siano state per lo più ridotte. Quanto servirebbe ora è solo un atto di fiducia reciproco a livello politico e, allo stesso tempo, una prova di forza all’interno di entrambi i Paesi per imporre l’accordo a chi lo avversa. Ed è proprio questo che sembra mancare: forse più da parte di un Obama indebolito dalla sconfitta democratica nel voto dello scorso autunno che da parte di Rouhani. A Teheran in molti dicono sia stato un errore non siglare subito un’intesa politica nel novembre 2013, per spiazzare i falchi in entrambi gli schieramenti. «Più passa il tempo e meno Obama sembra il presidente capace di arrivare a una firma», concludono i pessimisti. Le celebrazioni per il 36° anniversario della Repubblica islamica svoltesi negli scorsi giorni danno bene il senso di rassegnata preoccupazione di buona parte della popolazione.   Al di là di una vuota retorica del regime, e delle piazze riempite con sapiente mestiere, l’atteggiamento degli iraniani suona quasi beffardo. Nelle conversazioni private si sprecano le ironie sugli slogan ufficiali e sulle promesse mancate della rivoluzione, anche da parte di chi – per la posizione ricoperta – dovrebbe perlomeno fingere di crederci. Nelle strade e nei luoghi pubblici, si moltiplicano le donne che portano mal sistemato e con palese fastidio il velo imposto dal sistema, i giovani che camminano mano nella mano (per tacere degli atteggiamenti nei luoghi privati). In fondo è una delle poche modalità rimaste di espressione del dissenso, dopo le brutali repressioni del 2009 e lo smantellamento del fronte riformista. Questo governo di moderati e di tecnocrati si limita a offrire la speranza di una progressiva normalizzazione del Paese e la fine di quelle difficoltà nei rapporti con l’Occidente che è il desiderio della maggior parte della società iraniana, molto più laica e lontana dagli stereotipi religiosi di quanto si pensi. Del resto, molti dei ministri – e lo stesso presidente Rouhani – hanno studiato in Europa e negli Stati Uniti e cercano, con prudenza, di stemperare la retorica della Guida suprema, limitando nel contempo il potere di pasdaran e servizi di sicurezza. Un programma di piccolo cabotaggio che non solleva grandi entusiasmi. Ma che sembra l’unico possibile per l’Iran di oggi. Parlando delle temperature davvero miti per la stagione, un amico mi fa notare che anche nel 1979 l’inverno fu molto dolce. E l’ayatollah Khomeini lo prese come un segnale, affermando che «la primavera sta arrivando». Sornione, il nostro osservatore commenta: «Almeno questa promessa la rivoluzione l’ha mantenuta. Per tutte le altre, aspettiamo ancora».