Opinioni

Dentro la crisi. Libia, una zattera alla deriva che però non cola a picco

Giorgio Ferrari sabato 8 luglio 2017

Mustafa Sanalla si liscia la folta barba e guarda fisso dentro l’obiettivo. L’annuncio che sta per dare è a suo modo significativo: «La produzione di petrolio – spiega alla tv di Stato il presidente della National Oil Corporation (Noc) – ha superato la soglia del milione di barili al giorno e con essa sono aumentate le esportazioni. Ogni giorno 715mila barili lasciano i terminal petroliferi di Mellitah e Zawiya, nel solo mese di giugno 30 petroliere si sono dirette verso i porti del Mediterraneo». Quello che Sanalla evita di dire è che proprio a Zawiya – sede della più importante raffineria di petrolio della Libia, costruita nel 1974 dalla Snamprogetti e gestita per conto della Noc dalla Azzawiya Oil Refining Company – si è verificato il più disastroso black out elettrico dalla fine del regime di Gheddafi. Un guasto alla centrale termoelettrica che garantisce energia alla raffineria e a un’area di 1.500 chilometri? «Assolutamente no – assicura la reporter e analista di Libya News Today Olfa Andolsi –, quello era un messaggio in chiave molto esplicito. Mittente, una delle tante milizie mercenarie, destinatari la Noc e il governo di Fayez al-Sarraj. Come dire: cari signori dei terminal petroliferi, se non ci lasciate rubare il petrolio come facciamo di solito non riuscirete più ad esportarlo neppure voi».

Ed è da qui che dobbiamo partire per capire come il caos libico – una zattera alla deriva da sei anni a questa parte con due governi inconciliabili, centinaia di tribù, decine di milizie e nessun reale controllo del territorio da parte dei poteri centrali – sia diventato nonostante tutto un modello (perverso quanto si vuole) di stabilità proprio grazie all’equilibrio delle sue forze e all’ombrello della Banca Centrale. Vediamo come. Quella libica è e rimane un’economia di guerra. Mentre cresce l’inflazione (attualmente veleggia tra il 30 e il 40%) e langue l’iniziativa privata, prospera viceversa l’attività di estorsione, furto e contrabbando. Tutto ruota intorno al petrolio, che condiziona ogni cosa, anche perché è l’unica risorsa esportabile, mentre tutti gli altri beni vengono dalle importazioni. «Si ruba in due modi – dice la Andolsi –: direttamente, appropriandosi dei pozzi, come aveva fatto il Daesh in Siria e come ha provato a fare nella zona della Sirte, oppure sottraendolo ai terminal e rivendendolo a prezzo calmierato agli assetati serbatoi occidentali». Un danno stimabile per difetto attorno ai 3,5 miliardi di dollari, ma che potrebbe crescere ulteriormente, visto che le riserve libiche di idrocarburi sono le più vaste dell’Africa e si piazzano fra le prime dieci del mondo: con i suoi 63 miliardi di barili di greggio e i 15 miliardi gas naturale la Libia potrebbe restare sul mercato per oltre cento anni.

Ma è soprattutto l’industria dell’estorsione a prosperare. C’è un 'pizzo' su tutto, sul traffico di organi, sul traffico d’armi, sui convogli illegali che trasportano il petrolio come pure su quelli ufficiali e anche sulle vite umane; le cifre fornite dai rapporti di The Global Initiative a Ginevra sono raggelanti: il transito di un migrante dal subcontinente ai porti di imbarco costa al trafficante fino a 25 dollari da versare alle milizie, le quali a loro volta si appropriano di tutti i beni delle migliaia di sventurati, convertendo il ricavato in armi o in petrolio rubato da rivendere al migliore offerente. Un business, quello delle vite umane, che supera i 350 milioni di dollari all’anno. L’industria dell’estorsione è capillare. Si calcola che sulla Via Balbia (la litoranea costruita dagli italiani lunga 1822 chilometri che va dal confine tunisino a quello egiziano) ci sia un balzello da pagare ai check point delle milizie ogni ventitrenta chilometri, neanche fossero dei caselli autostradali. La Noc lo sa e subisce, come lo subiscono a est, nella Cirenaica del generale Haftar. A risentirne è inevitabilmente la divisa nazionale: il tasso di cambio ufficiale è di 1,4 lire libiche per 1 dollaro, ma al mercato nero si arriva a oltre 8 lire, e così pure la sterlina e l’euro, che ufficialmente si comprano rispettivamente a 1,8 e a 1,5, vengono in realtà scambiate a 10,8 e a 9,5.

Quello libico è certamente uno sfacelo, iniziato e provocato dalla guerra-lampo dichiarata unilateralmente dalla Francia di Sarkozy e nella quale l’Italia entrò con una certa riluttanza, presagendo fin dall’inizio che la caduta di Gheddafi, quel 'regime change' tanto caro alla visione geopolitica americana in Medio Oriente e nel Nordafrica, non avrebbe portato nulla di buono. Già nell’ormai lontano 2012 Tripolitania, Cirenaica e Fezzan, le tre grandi entità geografiche di quel regno che Gaetano Salvemini un secolo prima aveva definito come 'uno scatolone di sabbia', mostravano in tutta evidenza la propensione a disgregarsi piuttosto che a unirsi. Un anno prima, nel 2011, mentre ci aggiravamo fra le macerie dell’ambasciata italiana a Tripoli, già si capiva come Bengasi, capitale reietta della Cirenaica che Gheddafi tenne volutamente ai margini della modernità e del progresso libico, anticipava ciò che sarebbe accaduto poco dopo nella capitale: un frenetico gioco di spartizioni tribali, di rapimenti, di richieste di riscatto, di ministri, banchieri, autorità rapiti o minacciati.

Nella stessa Tripoli gli Zintan si erano aggiudicati il controllo dell’aeroporto internazionale, mentre ai Fratelli Musulmani era toccata la gestione delle caserme (e la conseguente umiliazione dell’esercito). La metropoli invece era abbandonata a se stessa: impossibile costituire un corpo di polizia, impossibile esercitare un’effettiva vigilanza sulle strade. A farla da padrone erano le decine di clan e le loro milizie, disposte a cambiare bandiera e casacca a seconda dell’entità dell’ingaggio. Le stesse che oggi reclamano il 'pizzo' anche sull’aria che si respira. I risultati si toccano con mano. Secondo la Banca Mondiale, il Pil pro capite libico nel 2016 è diminuito di quasi due terzi rispetto ai valori precedenti la rivoluzione del 2011, precipitando a 4.458 dollari, mentre il debito nazionale ha raggiunto il 110 per cento del Pil. Viceversa i prezzi dei generi alimentari sono aumentati del 31%

Ma anche i più sofisticati dei think thank si pongono da sempre la medesima domanda: come fa la Libia a non precipitare in un caos di tipo somalo? «Tu chiamala, se vuoi, 'la mano invisibile del mercato' – dice Abdulah Ben Ibrahim del Libya Observer –, ma sappi che a tenere insieme questo caos è la Banca Centrale Libica, che insieme alla Noc continua puntualmente ad assicurare i salari ai dipendenti pubblici. Sono queste due entità, formalmente indipendenti rispetto ai due governi esistenti, a impedire che la guerra civile degeneri ulteriormente». Forse Ibrahim ha ragione.

La metafora di Adam Smith sulla ricerca egoistica del proprio interesse funziona paradossalmente proprio in un Paese perennemente sull’orlo del caos, con governi e fazioni che non si parlano e progetti economici e di sviluppo che non riescono a decollare. Le milizie stesse hanno tutto l’interesse a non veder prevalere né il governo di Tripoli né quello di Tobruk: lo stallo libico assicura a modo suo quella stabilità che consente all’economia nazionale, per quanto largamente basata sull’illegalità, di galleggiare. Il prezzo, in termini di vite umane e di instabilità dell’area è altissimo. Ma questo è un problema che paghiamo e vediamo solo noi, che dall’altra sponda del Mediterraneo assistiamo alla quotidiana tragedia dei migranti. Per i libici, e non sono pochi a pensarlo, tutto sommato la nave va. Galleggiando sul caos. Ed è con questa realtà che siamo costretti a fare i conti.