Opinioni

25 aprile. La memoria dei combattenti della Resistenza: liberazione è ricostruzione

Paolo Borgna mercoledì 24 aprile 2024

In Stalingrado di Vasilij Grossman c’è una pagina che, davanti a tante immagini di distruzione delle guerre in corso, sempre ci torna in mente. È quella in cui il contadino-soldato Pëtr Vavilov entra in Stalingrado «uccisa, distrutta». E di fronte alle rovine che ancora trasudano il calore dell’incendio come fosse l’alito delle persone vissute fra quelle mura; di fronte alle macerie che svelano l’enorme patrimonio necessario per la ricostruzione, capisce fino in fondo la guerra e scandisce a se stesso tre parole: «Hitler è questo».

Il tributo che noi dobbiamo ai nostri padri che resistettero in armi o comunque non aderirono all’alleanza tra Hitler e Mussolini è duplice. Innanzitutto, siamo loro grati per non aver consentito la vittoria del nazi-fascismo che avrebbe trasformato l’Europa, dall’Atlantico a Mosca, in uno sconfinato lager. E dobbiamo sempre ricordarci che, con la vittoria degli Alleati ma senza la Resistenza, la nostra Costituzione sarebbe stata concessa, octroyée.

E De Gasperi, il 10 agosto 1946, non si sarebbe potuto alzare con fierezza, al tavolo della conferenza di pace di Parigi, e pronunciare il nobile discorso che ancora oggi ci commuove. Ma siamo grati ai nostri padri anche perché, dopo il 1945 – pur insegnandoci a non dimenticare cosa furono il fascismo e la guerra – seppero ricostruire. Ricostruire le città e le fabbriche dalle macerie. Ricostruire l’economia. Ricostruire un’unità nazionale fondata sul ripudio della guerra e i valori della Costituzione, facendo dell’Italia una fondatrice della nuova Europa.

Sulla repulsione della violenza,
nata dall’aver combattuto una guerra,
si fondava il loro ottimismo
La loro voglia di costruire, di migliorare:
per sé e per i propri figli
Con questo loro sguardo ottimista
e con questa capacità di operare e intraprendere,
hanno costruito il nostro benessere e difeso la nostra libertà

Le guerre in corso ci hanno portato spesso a pensare a quella generazione di giovani uomini e donne che, cresciuti nel ventennio fascista, si trovarono ad incrociare i loro destini con la “morte della Patria” dell’8 settembre. Ogni loro destino è un romanzo individuale. Potevano essere stati sbandati, catturati, ribelli e fuggitivi. O esser fatti prigionieri dai tedeschi subito dopo l’8 settembre, portati in un campo di concentramento e costretti a lavorare in acciaieria, rifiutandosi di guadagnare la libertà col giuramento alla Repubblica sociale. O sparpagliati come militari in una nazione straniera e lì diventare prigionieri degli Inglesi. O trovarsi, in quel settembre, nella propria terra madre e partire “verso le somme colline” come il partigiano Johnny.

Qualunque fosse il bandolo del loro destino e qualunque sarebbe poi stata la loro vita, quei venti mesi che vanno dal settembre 1943 all’aprile 1945 avevano segnato il loro profilo, il loro sguardo sul mondo, il loro odio per tutte le guerre, la loro diffidenza verso i fanatismi.

Ho avuto lunga consuetudine con combattenti della Resistenza. E in ognuno di loro c’era la fierezza di aver saputo fare la scelta giusta: disobbedire ai bandi di Salò e combattere. Ma da nessuno di loro ho mai sentito l’esaltazione della violenza che avevano legittimamente esercitato.

Il padre di un mio compagno di scuola era stato un coraggioso capo partigiano della Matteotti. A ventidue anni era stato capace di assaltare una prigione fascista per liberare partigiani di un’altra formazione che il giorno dopo erano destinati al muro. Frequentavo casa sua quasi quotidianamente. Eppure, l’unica cosa che ricordo di avergli sentito dire sulla guerra è: «Ho avuto la fortuna di non dover mai ordinare la fucilazione di qualcuno; quando ho avuto un prigioniero, son sempre riuscito ad organizzare uno scambio». Anche su questa repulsione della violenza, nata dall’aver combattuto una guerra, si fondava il loro ottimismo. La loro voglia di costruire, di migliorare: per sé e per i propri figli. Con questo loro sguardo ottimista e con questa capacità di operare e intraprendere, hanno costruito il nostro benessere e difeso la nostra libertà.

Noi, i loro figli, che siamo l’unica generazione del ’900 che ha avuto la fortuna di non aver vissuto, nella propria giovinezza, alcuna guerra alle porte di casa e di aver conosciuto soltanto crescita economica, ascesa sociale, ampliamento dei diritti, li abbiamo sempre ammirati. E, oggi che non ci sono più, ancora impariamo dalla loro lezione. E ci sentiamo di narrarla ancora alle generazioni che ci hanno seguito. E di auspicare che chi vivrà i dopoguerra che verranno, abbia la stessa capacità di non dimenticare guardando però al futuro.