Opinioni

Continua la 'supplenza' della Banca centrale. L'Europa non lascia la terapia intensiva

Marco Girardo venerdì 23 ottobre 2015
La supplenza delle Banche centrali non è finita. Anzi, potrebbe durare più a lungo del previsto. Soprattutto in Europa se, come ipotizzato ieri dal governatore della Bce Mario Draghi, il quantitative easing venisse non solo potenziato a dicembre, ma dilatato pure oltre la scadenza naturale ipotizzata per settembre 2016.  L’effetto annuncio si è immediatamente tradotto nella risposta sovreccitata delle Borse e in una consistente limatura dello spread, il differenziale tra Btp decennali e i Bund tedeschi, sotto quota 100 punti base. Buon per il Tesoro e per i nostri conti pubblici, che continueranno a beneficiare del dividendo da espansione monetaria in termini di minori esborsi per il servizio al debito. L’intervento straordinario della Bce su questo fronte è stato particolarmente efficace. Il QE è soltanto l’ultima delle misure 'non convenzionali' messe in campo per fronteggiare la crisi del debito in Europa.  Il programma di acquisto titoli si è affiancato infatti agli altri 'scudi' alzati nell’Eurozona, dal meccanismo di stabilità Esm alle sofisticate operazioni OMTs della stessa Bce. Ma il vero obiettivo del maxi-stimolo, non va dimenticato, era quello di risollevare l’inflazione a un livello consono, per la Banca centrale intorno al 2%.  Purtroppo ne siamo ancora lontanissimi. Il QE, cioè, non ha centrato il bersaglio. Una dose adeguata d’inflazione è come il colesterolo buono: serve a oliare l’economia e consente fra l’altro di ridurre il rapporto debito-Pil – uno dei parametri di riferimento per le manovre economiche dei governi – in modo indolore, essendo incorporato al denominatore della frazione e cioè alla voce 'crescita'. Più è grande il Pil nominale con inflazione, più diminuisce il fatidico 'rapporto' che per l’Italia è a livelli insostenibili a causa dell’immenso debito pubblico che sta 'sopra', al numeratore, ma che ha oggi un costo medio decisamente ridotto rispetto a due anni fa.  La Bce è dunque costretta ad aumentare l’intensità del quantitative easing proprio per scaldare i prezzi che la crisi ha praticamente congelato. E stimolare al contempo una ripresa rivelatasi meno solida del previsto o quanto meno dello sperato. L’intervento deve inoltre tenere conto di quanto sta accadendo in Cina, dove la Banca del Popolo ha a sua volta avviato un programma di espansione monetaria per domare in prima battuta la brusca frenata dei listini di casa e provare a controllare poi un rallentamento della crescita che va maneggiato con cura. Alla lunga, l’intervento monetario cinese potrebbe esportare deflazione in Europa, proprio quello che non serve quando i prezzi sono in Eurolandia già a livelli troppo bassi. Dall’altra parte dell’Oceano, anche la Federal Reserve è stata costretta a rinviare il ritorno alla 'normalità' per fronteggiare la mossa di Pechino. I tassi di riferimento, negli Stati Uniti, sono tuttora al minimo storico.  Considerando pure il Giappone e l’aggressività dell’Abenomics (la politica monetaria ed economica del premier Abe), ci ritroviamo pertanto in una fase storica in cui la quasi totalità della crescita globale è alimentata artificialmente dalle Banche centrali. Certo, il loro protagonismo è stato fondamentale. Come ricorda nel suo ultimo libro l’ex governatore della Fed, Ben Bernanke, la ragione per cui dopo lo choc del 2008 non c’è stata una replica della Grande Depressione stile anni Trenta va cercata proprio nelle terapie d’urto adottate dalle autorità monetarie.  L’impressione è tuttavia che possa risultare a questo punto più complicato del previsto lasciare il reparto di terapia intensiva. Tornare cioè a una situazione in cui il vero protagonista della crescita è il ciclo economico – a partire da un incremento della produttività – e non quello finanziario, dopato per altro dalla liquidità delle Banche centrali. Il guaio è che dagli anni Novanta, ben prima che Lehman Brothers crollasse, la liberalizzazione dei movimenti di capitale e la globalizzazione hanno provocato una mutazione genetica nella percezione del rischio e del valore dei beni economici, a partire da quello delle azioni. Un cambiamento strutturale che, in un’avvicendarsi di euforie (irrazionali) e crolli dei mercati, ha fatalmente indotto un accumulo di debito pubblico e privato pronto a scoppiare da un momento all’altro a latitudini ogni volta diverse. Per queste ragioni gestire la fase di uscita dalla 'defibrillazione' tramite politica monetaria – impegnata in Europa a rianimare con maggior vigore i prezzi – sarà tutt’altro che indolore. La supplenza delle Banche centrali potrebbe diventare addirittura un’inedita e per certi versi pericolosa cattedra a tempo indeterminato.