Opinioni

Capire la morte, non inseguirla per non aumentare la notte

Marco Tarquinio sabato 15 ottobre 2016
Gentile direttore,
trovo giusto il richiamo di “Avvenire”, contenuto nell’editoriale («La compagnia dimenticata») che domenica 9 ottobre lei ha affidato a Vittorio Sironi. Un richiamo forte a una assistenza del moribondo e dei familiari che sia piena di umanità. Aggiungerei – come frutto di una lunga esperienza professionale – che purtroppo, non poche volte, il medico si trova di fronte all’opposizione ferma dei familiari stessi al ritorno del loro malato terminale a casa per una morte più umana e meno alienante.
Santo Bressani


La sua sottolineatura, gentile dottor Bressani, è dolorosa e amara. Credo che ciò che lei segnala faccia risaltare con ancora più forza la necessità di “riconciliarci” con la morte che – come ha ricordato il professor Sironi, a sua volta medico, e storico della medicina – non è una sconfitta dell’arte medica e tantomeno dell’umano, ma parte ineliminabile e di assoluta rilevanza del nostro percorso personale e della nostra vita relazionale (familiare e comunitaria). Quanta sofferenza ulteriore (che nessuna benedetta cura palliativa può attutire) e quanta solitudine produce ogni morte non accompagnata... E spesso quanto rimpianto in chi ha un «cuore di carne», o lo ritrova. Il bell’editoriale di prima pagina che lei richiama era concentrato, a partire dalle cronache, su coloro che vestono il camice bianco, ma la questione riguarda davvero tutti. Oggi come ieri, in questo nostro tempo e in questa porzione di mondo nel quale la morte da moltissimi di noi viene rimossa, mentre da alcuni è più che mai invocata come diritto (esigibile e/o irrogabile a comando), ma non sempre è compresa e accettata nella sua nuda verità. Per chi crede in Dio – o se non crede almeno coltiva, etsi Deus daretur, un’idea concreta e buona dell’umanità – essa non è mai semplice “retribuzione” per una vita riconosciuta sbagliata o imperfetta né, in alcun modo, rappresenta una pura fine. La morte è culmine e porta. E a volte può essere attesa, persino invocata, e considerata “liberante”. Io credo che bisogna continuare a imparare quella saggezza che conduce a non guardare mai da lontano, che resiste alla tentazione del giudizio altezzoso e che induce a farsi rispettosamente prossimi. Ma credo anche che a tutti – in primis medici, infermieri e familiari dei pazienti, ma non di meno ai portatori di opinioni forti – è necessaria l’onestà di non vestire e travestire idee, ambizioni, indifferenze, egoismi, debolezze, paure, (in)sofferenze e interessi di un’accondiscendenza pregiudiziale e “desiderante” nei confronti della morte. «Morte corporale», a ognuno «sorella» come la cantava san Francesco (mettendo in guardia dalla «morte secunda», quella spirituale), che è appunto parte della vita e che dobbiamo “capire” e dalla quale non dobbiamo lasciarci affascinare. Serve serena e forte consapevolezza che la vita e l’amore ci sono e vincono, e non finiscono, sino a quando non ci inchiniamo in qualunque modo al dominio della morte. Anche solo da cronista quale sono, e dunque non da scienziato e neanche da filosofo, ho sempre più chiaro – anno dopo anno, guerra dopo guerra, caso emblematico dopo caso emblematico – che ogni volta che ci rassegniamo alla morte degli altri, o ci illudiamo di governarla, cominciamo la nostra morte e aumentiamo la notte dell’umano. Non la giustizia, non la felicità e nemmeno la libertà.