Opinioni

Voglia di comunità: attendere e preparare il «ritorno a casa», dopo la crisi. Le radici e il volo

Luigino Bruni domenica 26 maggio 2013
C’è una nuova voglia di comunità. Una voglia che non di rado assume la forma della nostalgia, del desiderio struggente, di saudade di appartenere a qualcosa di più grande e di più resistente della nostra singolarità. Quando ci si ritrova a cinquant’anni senza lavoro, o quando si arriva a trent’anni e il lavoro non c’è ancora, si riscopre nella propria carne il valore di avere accanto una famiglia, una rete parentale, amicale e comunitaria che attutisce le nostre cadute, e ci impedisce di rovinare a terra o di sprofondare. La gestione sostenibile e l’elaborazione costruttiva di ogni caduta o sventura sono sempre operazioni familiari e comunitarie, comprese le cadute e sventure economiche, dalle quali ci si rialza solo se non si è soli. Quando arriva la tempesta, la piena o il tornado, le radici, la loro profondità e forza, contano molto. Nei momenti di crisi, di ogni tipo, si vorrebbe tornare, e si torna se e quando si può, alle proprie radici, in particolare dalle prime radici che sono sempre la famiglia, i genitori. Sembra farci bene l’aria, i profumi e gli odori della terra che ci ha generati. Ci si salva se si cerca, si trova, e poi ci si aggrappa a qualcosa di forte che ancora vive dentro. Ho conosciuto persone che sono guarite, o quantomeno sono state curate, da malattie dell’anima semplicemente tornando a vivere nella terra e nella casa dove erano cresciuti. Non a caso l’albero è uno dei grandi e ricchissimi simboli della nostra cultura occidentale. Due alberi sono posti al centro del giardino dell’Eden, l’albero 'della vita' e l’albero 'della conoscenza del bene e del male'. Nel medioevo, poi, la scuola francescana ha letto quegli alberi primordiali in rapporto al legno della croce. È la bellissima tradizione teologica (San Bonaventura) e poi artistica (Ubertino da Casale) dell’arbor crucis, dove il Cristo veniva rappresentato crocifisso su di un albero fiorito e rigoglioso. Il nuovo 'albero della vita', che da legno infelicissimo diventa il nuovo albero 'felice'. Alberi, radici, frutti, comunità. Ma questa stessa immagine dell’albero e delle radici ci rivela subito una radicale ambivalenza della comunità. Le radici non bastano per fare una buona vita, individuale e sociale. Le radici sono essenziali quando c’è la tempesta, ma sono fatali durante gli incendi o le siccità, quando dovremmo spostarci e non possiamo. Per la vita buona c’è bisogno della seconda anima dell’Umanesimo dell’Occidente: quella dell’homo viator . È questa l’anima che ritroviamo nella famosa tesi di Ugo di San Vittore, uno dei padri della cultura europea, che sull’inizio del XII secolo così scriveva: «Chi trova dolce la sua patria è ancora immaturo (delicatus); più forte è chi sente ogni terra come la sua patria». E poi aggiunge: «Ma perfetto è soltanto colui che si sente esule in tutto il mondo». Una tradizione incarnata anche nell’Ulisse dantesco, che una volta tornato a casa deve ripartire verso l’Oceano a occidente. «Né dolcezza di figlio, né la pieta del vecchio padre, né ’l debito amore lo qual dovea Penelopé far lieta» (Inferno, XXVI). Una necessità di andare oltre che complementa e completa i bisogno di radici (Itaca) dell’Ulisse omerico. Itaca e l’oltre, l’albero e il mare, la stabilitas loci dei monaci e il vagare degli ordini mendicanti. Continui radicamenti e nuovi sradicamenti, espirazione ed inspirazione, voglia di casa e bisogno di uscire per non restarvi imprigionati dalle sue consolazioni. A partire dalla famiglia, che è buona comunità quando dà radici e, poi, aiuta i figli ad uscire di casa e formare altre case e altre comunità. Sono queste le nostre 'radici' europee, profonde, ricche, ramificate, intrecciate nella nostra vita, cultura, letteratura, che ci raccontano storie infelici di individui senza radici, ma anche di radici senza comunità, o con comunità sbagliate e mortifere. Come Cosimo, il barone rampante, che fugge dalle sue radici scegliendo di vivere sugli alberi, che non sono più immagine del radicamento ma della fuga. Quando l’Europa ha opposto queste sue due anime co-essenziali e le ha considerate una nemica dell’altra, ha prodotto solo disumanesimi. Ha generato comunità dove i legami sono diventati lacci, dove il bisogno di radici si è tramutato in xenofobia, razzismi, nazionalismi, guerre fratricide. O ha dato vita a individui dove il bisogno di uscire di casa e di mettersi in cammino è diventato solitudine nichilista di chi non ha né mete né ritorni. Oggi dobbiamo ricordarci e ricordare che le crisi generano sempre voglia di ritorno alle radici, ma dalla storia sappiamo che questi ritorni non sono stati sempre buoni ritorni. Il ritorno a casa dopo la seconda guerra mondiale ha generato la Repubblica e autentici miracoli politici, sociali ed economici. Ma non dobbiamo dimenticare che il ritorno alle radici dopo la grande guerra e la grande crisi ha prodotto fascismi e poi altra guerra fratricida. Non sappiamo ancora come sarà il ritorno a casa dopo questa crisi. Ma sarà senz’altro un cattivo ritorno se vorremo riscoprire radici nazionali che non siano anche europee e mediterranee. E se ci dimenticassimo che l’Europa è parte di un mondo più vasto, di cui siamo pure e prima cittadini. Sarà invece un buon ritorno a casa se la voglia di comunità sarà voglia di comunità concrete nei luoghi ordinari del vivere, e non 'comunità immaginarie', astratte, o soltanto virtuali. Non è credibile una comunità dove chiamiamo 'amici' i quasi sconosciuti 'incontrati' sulla rete, ma non vogliamo incontrare né sfiorare i vicini di casa, i colleghi, gli abitanti del quartiere.La verità etica di un incontro online è misurata anche da come guardo e saluto Marco e Fatima che abitano nel mio stesso pianerottolo. Le comunità più importanti sono quelle dove ci ritroviamo senza averle scelte, dalle quali possiamo anche decidere di partire o fuggire, ma che ci formano e ci amano proprio perché più grandi delle nostre preferenze e gusti. Le comunità che non ci chiudono ma ci aprono alla vita, non sono dei club, dove entriamo pagando una quota, per trovarci tra simili. Non scegliamo i nostri genitori, né i nostri fratelli, né i compagni di scuola, né quelli della parrocchia o del partito. Alle comunità non si chiede l’amicizia, né si dà, perché si chiede e si dà molto di più: le radici, e la voglia di spiccare il volo. ​​​​