Opinioni

Dat. Al «paradigma positivistico» si resiste con saldo «paradigma umanistico»

Francesco Ognibene giovedì 9 novembre 2017

Gentile direttore,
l’esperienza di Michele Gesualdi, expresidente della Provincia di Firenze, riportata con un’atroce quanto lucida puntualità nella lettera inviata ad alcuni giornali nei giorni scorsi, oltre a destare una sincera compassione (nell’accezione di “vicinanza nella sofferenza”) umana e cristiana, offre molti spunti di meditazione alcuni dei quali trascendono persino il piano religioso o etico per posizionarsi sul versante culturale della natura di un progresso che sta “incartando” l’uomo. La richiesta-appello di Gesualdi appare talmente umana da gridare vendetta: concedete – per legge – la possibilità a chi soffre di malattie incurabili di evitare ogni forma assurda (quindi inumana) di accanimento terapeutico. Consentite al malato ed ai suoi familiari di vivere – naturalmente – questo scorcio di percorso terreno senza “sfidare” le regole della vita. Naturalità, ecco la questione. Ormai per essere liberi di “morire naturalmente” serve una legge. Siamo arrivati all’assurdo di doverci tutelare – per legge – da un “cieco” progresso per tentare di ritrovare una qualche dimensione umana e, con essa, maturare la consapevolezza della nostra fragilità. Gesualdi descrive in modo delicato e potente, come solo la sofferenza sa suggerire, come la sfida al male si traduca – in specifici casi – in una tortura inutile, aggiuntiva e gratuita. Anche da un punto di vista deontologico, il buon senso sembra aver ceduto il passo alla pura e inumana sfida al destino. E la libertà di viversi come uomini fragili e mortali sembra essere costantemente messa a ferro e fuoco da un paradigma positivistico che ben poco ha di ragionevole e di positivo. Siamo arrivati al paradosso del “malato ostaggio della medicina” (sviluppo) quando la medicina è nata come servizio all’uomo (progresso). Ma non basta, come ricorda Gesualdi. La realtà descrive persino un medico “ostaggio” della propria professione, tanto da richiedere una legge che “tuteli i medici” da eventuali, libere e consapevoli scelte del malato. Un’aberrazione frutto di un equivoco culturale: aver sovrapposto e non distinto il progresso dallo sviluppo. Ciò che spesso viene “venduto” per progresso altro non è che semplice “strumento tecnologico” d’intervento a cui viene ispirato e indissolubilmente abbinato un protocollo medico. Protocollo che – come nel caso di specie – obbliga medico e malato tanto da richiedere una legge che liberi entrambi. Gesualdi, a cui va la gratitudine di aver offerto il proprio cammino di sofferenza quale dono di meditazione, sembra prefigurare l’uomo di un domani ormai (come dimostrano i fatti) alle porte: un uomo sempre meno autenticamente libero, imbrigliato dalle sue stesse alchimie scientifico-tecnologiche, prigioniero della propria ansia di “dominio”. Il problema non è la scienza né la tecnologia bensì l’assuefazione a un sistema di valori che snatura l’idea stessa di uomo, di natura, di scienza e di vita.

Daniele Marchetti Biologo-Epistemologo perfezionato in Bioetica

È una riflessione acuta e coinvolgente quella che lei propone, gentile dottor Marchetti, dopo il recente rilancio mediatico della lettera con la quale il 13 marzo Michele Gesualdi chiedeva ai capigruppo parlamentari, e allo stesso presidente della Repubblica, una sollecita approvazione della legge sulle Dat, il cosiddetto biotestamento. Prima di entrare nel merito dei suoi argomenti mi permetta però di sottolineare il dettaglio cronologico: la sofferta testimonianza di uno dei più noti allievi di don Milani non reca infatti la data del giorno in cui è stata divulgata da alcuni siti informativi e agenzie di stampa (il 1° novembre) ma ci riporta al periodo nel quale era in pieno svolgimento alla Camera la discussione sul disegno di legge. Solo pochi giorni prima – il 24 febbraio – l’Associazione radicale Luca Coscioni, che chiede la legalizzazione dell’eutanasia, aveva diffuso un drammatico video nel quale il giovane dj milanese Fabiano Antoniani manifestava la sua intenzione di recarsi in Svizzera per ottenere l’aiuto al suicidio, intento purtroppo portato alle estreme conseguenze il 27. Fu anche per il formidabile pressing emotivo di quel caso – stiamo parlando della morte di un disabile grave per effetto di sostanze chimiche letali e non per la sua malattia – che la legge arrivò all’approvazione di Montecitorio il 20 aprile, senza peraltro dimostrare che il testo approvato fosse una risposta all’umanissima attesa di non vivere come una condanna il tratto della propria vita segnato dalla più acuta sofferenza. Non prenda questa ricostruzione per una pedanteria cronachistica: ogni vicenda (e il suo affiorare dentro un dibattito pubblico, specie su un tema tanto delicato) andrebbe sempre collocata nella sua concreta cornice storica, e si dovrebbe sgombrare accuratamente il terreno da ogni possibile uso strumentale di dolorose vicende personali utilizzate da qualcuno per ottenere un risultato politico (e persino elettorale, vista la fase nella quale entriamo). Intendo dire che l’emozione suscitata da singoli casi – non di rado, purtroppo, proposti o riproposti ad arte secondo una precisa strategia – rischia di distogliere dal messaggio che ci inviano persone come Fabo e Loris Bertocco, il veneziano che in ottobre ha varcato il confine svizzero per trovare la morte «deluso, stanco, sfinito dalle mille quotidiane difficoltà, di fronte a tanta incomprensione». Chi ha ascoltato però questa parte decisiva del suo congedo? Ecco il punto che può sfuggire: c’è in queste storie un grido che chiama tutti a prenderci cura dell’altro sofferente, a non lasciare nessuno solo, a farsi carico collettivamente dell’angoscia di situazioni che, anche nella migliore condizione assistenziale, non possono proporre la morte come unica scelta. Dev’essere la capacità di cura – intesa nel senso più ampio – della persona malata e sofferente il segno distintivo di una società nella quale l’allungamento della vita media combinato con l’accresciuta capacità clinica aumentano rapidamente le situazioni di frontiera. Abbiamo bisogno di una comunità umana che sappia esprimere nel suo complesso l’accoglienza della fragilità più estrema e non si limiti a lasciare “libertà di morire”, uno tra i molti nomi dell’indifferenza. Vuoi morire? Fai pure, lo Stato ti aiuterà, il tuo dolore non mi riguarda. L’esperienza di Paesi dove la “morte a richiesta” è legale parla chiaro: l’accettazione delle domande di finire anzitempo i propri giorni è ormai andata ben oltre l’originaria intenzione di assecondare casi terminali di assoluta drammaticità come quelli squadernati dai media con sospetto tempismo. Serve una legge sul fine vita a una società che con tutte le sue forze non accetta di far sentire nessuno di troppo? Sì, di sicuro, per metterci al riparo (ma basterebbe la fedeltà al giuramento di Ippocrate...) da qualunque pratica eutanasica, sempre possibile, specie per i disabili più gravi. Sì, probabilmente, per risparmiarci accanimenti tecnologici insensati. Ma per ogni altro caso non va in alcun modo alimentato, anche con le migliori intenzioni, l’incoraggiamento implicito di una legge che renda facile “farsi da parte”, con l’alibi legale offerto alla società per disinteressarsi di chi non ce la fa più. Lei giustamente sottolinea che paziente e medico devono essere liberati da una speculare servitù dettata da un inquietante strapotere tecno-medico. Ma una legge che interviene a regolamentare il rapporto di cura che è per sua natura una relazione profondamente umana finisce per burocratizzare un legame che invece proprio oggi va ricondotto alla sua origine. Non si neutralizza il «paradigma positivistico» con una legge (peraltro assolutamente perfettibile, e che certo non va approvata con la smania di esibire una “conquista”), ma col ripristino condiviso di un «paradigma umanistico» senza il quale è a rischio l’intero orizzonte della dignità personale. Non serve una legge per «morire naturalmente», cioè senza ingiusti accanimenti terapeutici e senza calcolati abbandoni della cura. Serve una salda alleanza tra medico e paziente (e i suoi familiari). E serve pura e semplice umanità.