Opinioni

Il processo Gafà-Avvenire. Le minacce "tipicità locali": quel torto fatto a Malta

Nello Scavo mercoledì 16 dicembre 2020

Ricordo quando, insieme ai nostri legali e ad alcuni dei giornalisti maltesi più vicini a Daphne Caruana Galizia, siamo stati accolti a La Valletta da una piccola folla urlante che ci rovesciava addosso (in italiano) insulti, improperi, minacce. Fin da quella prima udienza era stato chiaro a tutti che a tre anni dall’omicidio della giornalista maltese, in troppi ritengono ancora normale molestare i reporter potendo contare sull’impunità.

A Malta le tifoserie intossicano ogni dibattito. Ci sono cronisti che quasi non possono portare i figli a prendere un gelato senza mettere in conto il rischio che il sostenitore di un qualche esponente politico non si prenda la libertà di gridargli una parola di malaugurio, o peggio. Perciò a tanti nostri colleghi, e a una buona fetta di opinione pubblica locale, la notizia di una indagine spontanea della polizia per verificare la consistenza di una serie di minacce contro un giornalista straniero era stata accolta con sollievo.

Per la stessa ragione la sentenza con cui ieri è stato prosciolto «per insufficienza di prove» Neville Gafà (già coordinatore dell’ufficio del primo ministro maltese), accusato di quelle minacce all’indirizzo del sottoscritto, ha finito per scoraggiare molti. Manuel Delia, blogger e columnist del 'Times of Malta', ha parlato per tutti: «Questa sentenza ha un effetto agghiacciante sui giornalisti», perché «ancora una volta vediamo le nostre istituzioni rifiutarsi di proteggerli».

A complicare le cose c’è il sistema giudiziario di quel Paese, così antiquato e fuori equilibrio – o, se volete, così lontano dagli standard imposti da uno Stato di diritto degno di questo nome – che l’Unione Europea ne chiede con urgenza la riforma. Gran parte dei magistrati in servizio sono, infatti, di nomina politica diretta.

E può capitare che ex dirigenti di partito si ritrovino a presiedere processi contro i propri avversari politici o in favore dei propri ex compagni di scranno. Anche per questo i giornalisti non hanno mai avuto vita facile. Sempre ieri nel Palazzo di giustizia della capitale avrebbe dovuto chiudersi l’inchiesta pubblica (un sorta di Commissione d’inchiesta parallela a quella del Tribunale penale) su eventuali omissioni politiche nella morte della giornalista Daphne Caruana Galizia.

Il Governo aveva chiesto alla Corte di rispettare la scadenza del 15 dicembre e chiudere il caso con gli elementi raccolti finora. Inaspettatamente i magistrati si sono ribellati e, annunciando la rinuncia agli emolumenti, procederanno a numerose altre audizioni: giornalisti, giuristi, esponenti di maggioranza e opposizione. Tra loro anche i presunti mandanti dell’attentato contro la giornalista che aveva scoperchiato un sistema di interessi che tiene insieme politica e malaffare. Secondo la Commissione d’inchiesta, le autorità maltesi dell’epoca, pur al corrente delle minacce contro Daphne, non fecero nulla per proteggerla. Al contrario i legali degli imputati sostengono che quelle non erano propriamente minacce, ma «espressioni tipiche della cultura locale». Un argomento usato anche nel corso del processo, cominciato a ottobre, a carico di Neville Gafà che secondo la polizia maltese aveva diretto indirizzato minacce a chi scrive per quanto 'Avvenire' aveva pubblicato e ha ha continuato a documentare.

Gafà, già figura preminente nell’entourage del premier Muscat, a sua volta costretto alle dimissioni dopo l’omicidio di Caruana Galizia, dopo aver rivolto accuse alla organizzazioni umanitarie che sostengono la necessità del soccorso in mare per i migranti, si era rifiutato di rispondere a una mia domanda su Twitter non prima di un avvertimento: «Ferma i tuoi sporchi affari, oppure ti fermeremo noi». Quando gli chiesi a chi si riferisse, preferì non rispondere. Secondo la polizia di Malta, che aveva eseguito di propria iniziativa anche indagini informatiche sulle comunicazioni di Gafà, non vi era dubbio sulle intenzioni dell’imputato che aveva parzialmente confermato nel corso degli interrogatori, pur asserendo che si trattava di «opinioni politiche» manifestate con una certa irruenza «tipica della cultura locale ». Giustificazioni che hanno offeso tanti maltesi perbene. Passi pure per il nostro caso (non è escluso che la Polizia voglia fare ricorso contro la sentenza), ma davvero ci auguriamo che questa 'tipicità' non trasformi in farsa il processo da cui ci aspettiamo verità e giustizia per Daphne.