Opinioni

Pedofilia: le singolari conclusioni di una studiosa. Le «concezioni» della Chiesa e l’ossessione occidentale

Giuseppe Dalla Torre martedì 16 marzo 2010
La causa dei dolorosi casi di pedofilia denunciati nella Chiesa andrebbe ricercata nelle «concezioni della sessualità» che questa ha sempre coltivato. Lo sostiene Chiara Saraceno in un articolo apparso su "La Repubblica" di domenica scorsa e nel quale ha l’onestà intellettuale di sottolineare l’infondatezza di ogni relazione tra abusi e celibato ecclesiastico. La tesi, a ben vedere, prova troppo; quindi non tiene. Perché se così davvero fosse, si dovrebbe concludere che certi fenomeni si verificherebbero solo nella comunità ecclesiale, ma non in quella civile che, almeno in Occidente, si è finalmente liberata da ogni "tabù" sessuale. La realtà invece ci dice il contrario. Non solo nell’emancipatissima società civile del nostro tempo i gravi fatti violativi della persona e dell’innocenza dei minori continuano a verificarsi, ma sono statisticamente di gran lunga più numerosi rispetto alle dimensioni che il fenomeno – comunque condannabile – ha nell’ambito della società ecclesiastica. Si tratta di un dato che nessuno può mettere onestamente in discussione. È da chiedersi, invece, se il problema non sia un altro. O meglio, se il problema non sia proprio in una cultura, in modelli di comportamento, in prassi di vita che si sono affermati ormai da tempo nell’Occidente emancipato, portando a quella «ossessione del sesso» che un cattolico, ma certamente non un oscurantista moralisteggiante "clericale", quale Arturo Carlo Jemolo, denunciava negli ultimi anni della sua vita; una cultura che tutti inevitabilmente respiriamo e dalla quale non tutti riescono a non rimanere condizionati. In questi giorni si discute a Roma dell’iniziativa di un istituto scolastico di collocare un distributore di preservativi presso le aule: un «atto di coraggio», lo ha definito un oscuro politico locale. Atto di coraggio sarebbe stato al contrario, contro facili luoghi comuni, opporsi a una richiesta del genere. E ciò proprio in nome della missione che la scuola è chiamata a svolgere: quella di educare, vale a dire di formare i giovani al controllo di sé, delle proprie pulsioni, degli istinti che ragione e volontà sono chiamate a regolare. Naturalmente il discorso non riguarda soltanto la dimensione della sessualità; ma è ben evidente che anche i fenomeni di pedofilia costituiscono espressione di una società che ha rinunciato all’autentica paideia, per la quale ciò che istintivamente si desidera deve essere prontamente còlto. La realtà è che un residuo di concezione illuminista, che vuole l’uomo buono in sé, ha fatto via via perdere il senso non solo dell’arte paidetica, ma anche della stessa libertà, che ormai per i più significa poter fare tutto ciò che si vuole, anche se irrazionale, anche se nocivo. Vera libertà, invece, è emanciparsi dalle tendenze che condizionano, liberarsi dai vizi che rendono schiavi, essere realmente padroni di sé per poi liberamente e responsabilmente decidere. Un segno di quella vecchia e tenace concezione lo cogliamo addirittura nella legge, che pure dovrebbe avere una funzione preventiva prima ancora che repressiva, una funzione cioè educativa per evitare – nel possibile – quella sanzionatoria. Basti riflettere sul contenuto di quell’articolo 147 del codice civile, così come riformato nel 1975, che riguarda i doveri dei genitori verso i figli. In esso si dice che «il matrimonio impone ad ambedue i coniugi l’obbligo di mantenere, istruire ed educare la prole tenendo conto delle capacità, dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli». Dunque educare secondo le inclinazioni naturali: tutte? Anche quelle nocive o malvagie?