Opinioni

Occupazione. Lavoro, perché il Jobs Act non ha ridotto la precarietà

Francesco Nespoli e Francesco Seghezzi* venerdì 10 marzo 2017

Il dibattito sull’efficacia e sui risultati del Jobs Act prosegue senza tregua sin dai giorni successivi all’approvazione dei primi decreti. Un dibattito alimentato dalla moltiplicazione di dati disponibili, diffusi periodicamente da diverse fonti, in particolare Istat, Inps e Ministero del lavoro. Spesso ciò ha permesso diverse licenze interpretative, utilizzate per far sostenere o meno ai numeri tesi precostituite. A seconda della fonte, si utilizzano tipologie di dati differenti, frutto di indagini di natura diversa e che forniscono informazioni altrettanto distinte. Alla luce delle ultime diffusioni è però oggi possibile fornire un quadro complessivo non tanto dell’efficacia del Jobs Act, quando dell’andamento del mercato del lavoro negli ultimi due anni. E facciamo questa precisazione in premessa perché uno dei principali vizi del dibattito è stato, ed è, proprio considerare la recente riforma del lavoro come l’unica causa delle dinamiche occupazionali successive.

Andando per ordine e volendo iniziare dai dati amministrativi, i dati di flusso elaborati dall’Inps hanno registrano nel 2015 un consistente aumento dei contratti a tempo indeterminato, pari a 934mila in più rispetto all’anno precedente. Questo a conferma del fatto che l’effetto della decontribuzione (più che quello della riforma dell’articolo 18), nel 2015, è stato evidente. Altrettanto evidente è stata però la brusca frenata che si è verificata nel 2016, anno in cui la crescita netta dei contratti a tempo indeterminato si è fermata a 82mila, con una contrazione del 91% rispetto all’anno precedente. Un numero che, oltretutto, resta positivo in virtù della riduzione del numero di contratti cessati (circa 123mila unità in meno). Al contrario, sul fronte dei contratti a tempo determinato, la dinamica è stata opposta. Se nel 2015 questi erano diminuiti di 253mila unità, non appena la decontribuzione si è ridotta, ossia nel 2016, abbiamo assistito ad una crescita netta di 221mila contratti a tempo determinato (+187%). Complessivamente i nuovi contratti a termine sono cresciuti continuativamente dal 2014 anno in cui erano 3.366.226, passando alle 3.460.756 del 2015 per poi subire una crescita dell’8% nell’ultimo anno arrivando a 3.736.700.

Fin qui abbiamo dato conto del flusso dei contratti di lavoro, utilizzando dati Inps. Per avere invece un’idea del numero degli occupati è necessario rivolgersi all’Istat. Emerge dai dati statistici che nel 2015 abbiamo avuto 238mila occupati permanenti in più, mentre nel 2016 l’incremento è stato di 111mila. Per quanto riguarda invece gli occupati a termine nel 2015 essi sono stati 34mila in più, mentre nel 2016 la crescita è stata di 155mila unità (+6,6%). Sia nel 2015 che nel 2016 è continuato il trend di crescita dei lavoratori a termine sul totale. Se infatti nel 2007 13,2 lavoratori dipendenti su 100 avevano un contratto a termine, il numero è calato lievemente durante la crisi per poi tornare a crescere arrivando a 13,7.

Sul fronte del lavoro autonomo negli ultimi anni si è assistito a un calo complessivo del loro numero, se nel 2014 erano 5,546 milioni, a fine 2016 erano scesi di 158mila unità arrivando a 5,388 milioni. Tra le possibili ragioni di tale diminuzione potrebbe essere individuata quella della stretta sulle 'false partite IVA' prevista dal Jobs Act, ma occorre allo stesso tempo ricordare come la diminuzione dei lavoratori autonomi sia una costante ormai da oltre dieci anni. Più complesso invece avere una panoramica aggiornata del numero di collaboratori. Dagli ultimi dati Inps che si riferiscono al 2015, indicati come provvisori, si evince un calo costante a partire dal 2011 con una accelerazione nel 2013 (anno in cui sono diminuiti di 92.623 unità) e nel 2015 (anno in cui sono diminuiti di 51.007 unità). Particolarmente interessante è poi analizzare l’occupazione nelle diverse fasce d’età. Nella fascia più giovane, tra i 15 e i 24 anni, il tasso di occupazione era del 24,2% nel 2007, si è poi ampiamente ridotto scendendo al 15,6% nel 2013 per rialzarsi debolmente giungendo al 16,3% nel 2016, sotto di circa 8 punti rispetto al periodo pre-crisi. Scenario simile per la coorte successiva, quella tra i 25 e i 34 anni. Se nel 2007 in questa fascia lavoravano circa 71 persone su 100, nel 2013 erano scese a 59 per risalire a 60,5 nel 2016, anno in cui hanno lavorato in media 10 persone in meno rispetto alla fase pre-crisi. Stesso andamento per la fascia 35-49 anni mentre l’unica crescita consistente si è verificata nel gruppo 50-64 anni che ha visto una crescita costante che ha portato la percentuale degli occupati dal 46,8% del 2007 al 53,8% del 2013 per poi salire ancora al 58,5% del 2016 appena concluso.

Recentemente l’Istat ha tentato di stimare l’andamento occupazionale per fasce d’età al netto dell’effetto demografico, questo ci consente di avere un’idea più chiara del trend dell’ultimo periodo. In una stima sul 2016 si evince che su un totale di 293mila occupati in più sarebbero 217mila quelli tra i 50 e i 64 anni, 49mila quelli tra i 35 e i 49 anni e 27mila quelli tra i 15 e i 34 anni. Nell’ultimo anno quindi ad ogni nuovo occupato tra i 15 e i 49 anni sono corrisposti 2,8 nuovi occupati tra i 50 e i 64 anni. Il risultato di questi dati è difficilmente equivocabile e mostra come siano stati i lavoratori più maturi quelli interessati dalla crescita occupazionale degli ultimi anni. E questo consente di guardare con una luce nuova gli effetti non tanto del Jobs Act, quanto quelli della riforma delle pensioni dovuta alla Ministro Fornero. Infatti se i pensionati in Italia erano 16,593 milioni nel 2012, il numero si è ridotto a 16,179 milioni nel 2015, con un calo di 414mila unità. Si può dedurre quindi che una buona parte dell’aumento occupazionale al quale si è assistito negli ultimi due anni sia dovuto soprattutto alla crescita del numero di lavoratori per i quali la pensione si è allontanata.

Un ultimo dato interessante, tra i tanti che si potrebbero ancora illustrare, è relativo ai costi della decontribuzione. Trattandosi infatti di un esonero contributivo i costi si realizzano come effetti negativi per la finanza pubblica e crescono quindi a seconda del numero di contratti che hanno chiesto l’esonero e alla loro durata. Una valutazione completa si farà soltanto alla fine del 2019, quanto è possibile fare ora è vedere innanzitutto le stime fatte dal governo che prevedono per la decontribuzione del triennio 2015-2018 un 'costo' di 15,09 miliardi, mentre per quella del biennio 2016-2018 altri 4,31 miliardi, per un totale di 19,4 miliardi. La stima si fonda su un numero di contratti che beneficiano dell’esonero pari a 1 milione sia nel 2015 sia nel 2016, ma nel primo anno il numero dei beneficiari è stato di 1,170 milioni mentre i dati provvisori del 2016 riportano di 616mila contratti.

Possiamo quindi ipotizzare, seguendo le stime del governo, una spesa di circa 20 miliardi di euro. Ci auguriamo che questa breve rassegna dei principali dati consenta di valutare, laddove possibile, in modo onesto e sereno l’andamento del mercato del lavoro. Se è ancora presto per un giudizio complessivo del Jobs Act, quello che è possibile dire in questa fase è che se l’obiettivo era quello di invertire in modo strutturale il trend dei nuovi contratti di lavoro, a vantaggio di quelli a tempo indeterminato, questa operazione non è riuscita. Infatti la riduzione della decontribuzione è coincisa con un ritorno all’andamento precedente alla riforma. Questo, tra i tanti, è un chiaro segnale che è quanto mai necessario uno sforzo di osservazione e comprensione della grande trasformazione in atto, piuttosto che lottare, anche in modo nobile, per riproporre le soluzioni tipiche di un mondo che, al momento, non dà segni di ritorno.

* Ricercatori Adapt