Opinioni

Domani la festa di San Giuseppe, voluta da Pio X nel 1956. Lavoratore e profugo

Domenico Volpi sabato 30 aprile 2011
Due festività, due ricorrenze liturgiche per un unico santo, il più grande: Giuseppe, il padre legale di Gesù.Al 19 marzo, festa tradizionale del patrono dei papà, delle famiglie, delle ragazze da marito, della "buona morte" e degli esiliati, si è aggiunta dal 1956 la festa di san Giuseppe Artigiano, voluta da Pio XII per valorizzare il senso cristiano del lavoro, bilanciando così la festa laica che all’epoca si tingeva prevalentemente di rosso.Il ragionamento ci porta a correggere qualche stereotipo. Giuseppe è onorato come 'artigiano', quindi come un lavoratore senza padroni. La sua caratteristica non è la stretta povertà ma l’operosità e la libertà: Gesù crebbe in una famiglia guidata da un uomo privo di costrizioni, capace di muoversi e di mettere all’opera la propria abilità sia a Nazaret e a Betlemme, dove pure soggiornò per alcuni mesi, sia in Egitto.Nel testo greco, il suo lavoro è qualifi­cato téctón, in latino faber, che in mol­te traduzioni dei vangeli e nell’acce­zione popolare è diventato falegname, mentre è più esatto dire carpentiere, artigiano del legno e del ferro e costruttore.Quel lavoro, in un piccolo villaggio, non dava certo l’agiatezza ma neppure la miseria. Giuseppe aveva, sia pure in misura modesta, i mezzi per preparare la festa di nozze, per organizzare il viaggio a Betlemme, per versare l’offer­ta al Tempio, per improvvisare la fuga in Egitto. Il Padre celeste permise che il Figlio nascesse in un luogo umilissi­mo, in una stalla, per dare un segnale ai potenti della Terra, ma Giuseppe a­veva senza dubbio il denaro per pagar­si l’albergo.Il problema fu che Betlemme era più gremita di Lampedusa di gente venuta da fuori e da luoghi diversi. Forse si è insistito troppo sulla condizione di po­vertà della Sacra Famiglia ed è stata messa poco in luce la realtà che erano stranieri, provenienti da una terra di­sprezzata come la Galilea. Se conside­riamo poi la fuga per scampare a una strage, troviamo che Giuseppe, Maria e Gesù furono emigranti per necessità, quindi profughi, bisognosi di trovare accoglienza, asilo e lavoro. Una rifles­sione oltremodo attuale.Tornando indietro all’inizio dell’Incar­nazione, possiamo discutere su un al­tro stereotipo: il 'dubbio' di Giuseppe: «Prima che venissero ad abitare insie­me, Maria si trovò incinta per virtù dello Spirito Santo. Ma Giuseppe suo sposo, che era giusto e non voleva de­nunziarla, pensò di lasciarla in segre­to » (Mt. 1, 18-19). Sappiamo che tra i due c’era un fidanzamento che era un vero contratto di nozze, che solo dopo un anno gli sposi erano tenuti a cele­brare la festa nuziale e la donna anda­va ad abitare a casa del marito. Una denuncia per adulterio avrebbe avuto come conseguenza la condanna a morte per lapidazione.L’evangelista definisce Giuseppe «giu­sto », che per gli ebrei era più che «one­sto » o «retto»: voleva dire «osservante della Legge», «adatto al suo compito», «disponibile al volere di Dio». È pensa­bile che un tale uomo, dinanzi a Maria, solo guardandola negli occhi, potesse dubitare di lei e pensare che tale pu­rezza fosse stata violata, sia pure con­tro la sua volontà? E allora, quale senso ebbe il dubbio di Giuseppe? Di chi dubitò? Numerosi teologi rispondono oggi che dubitò di se stesso. Capì che stava avvenendo qualcosa di grande e si disse: «Che co­sa ci sto a fare io, povero uomo, in que­sta realtà che mi supera? Sarà meglio che io mi ritiri con una scusa e lasci spazio al volere di Dio». L’uomo abi­tuato a che fare con le cose concrete, con il legno e il ferro, ebbe paura di qualcosa di intangibile, certo di trovar­si inserito in un avvenimento troppo grande, dalle conseguenze imprevedi­bili, come infatti era. Ebbe il timore di non essere adeguato a quella storia i cui segreti avrebbe conosciuto soltan­to per rivelazione in sogno.