Opinioni

L’amore non si condanna ma può condannare. Eleonora e il rifiuto di vaccinazioni e cure

Ferdinando Camon domenica 4 settembre 2016

Il caso di Eleonora e il rifiuto di vaccinazioni e cure La ricorderemo a lungo Eleonora, la ragazzina padovana che quest’anno s’è ammalata di leucemia, e pochi giorni fa è morta, appena compiuti i 18 anni. Ancor oggi i medici ripetono che loro potevano salvarla, e azzardano le probabilità: l’80-85%. La certezza non c’è mai. C’era certezza di morte però, se la ragazza avesse rifiutato le cure che la scienza impone.

E purtroppo è quello che è successo. La ragazza le ha rifiutate, appoggiata sempre dai suoi genitori. Anche oggi. I genitori dicono che non è morta per il cancro, perché il cancro non uccide, anzi guarisce da solo. Secondo loro, è morta per lo stress. La ragazzina era in lutto per la morte del fratello, e aveva chiesto lei una terapia soft. Ma poiché fino a una settimana fa era minorenne, la sua volontà non valeva, era la volontà dei genitori che valeva, e i genitori non volevano la chemioterapia, volevano una cura meno invasiva, meno devastante, più rispettosa del corpo e della sua bellezza.

Li capisco. Io ho soltanto figli maschi, ma capisco che se dei genitori hanno una figlia femmina s’innamorano della sua bellezza, e son pronti a morire pur di conservarla. È amore. Non è umano rimproverare ai genitori questo amore. I genitori han rifiutato la chemioterapia per amore, e se questo amore ha fatto morire la ragazza, dobbiamo concludere che è un amore sbagliato, un amore che uccide, un amore che dev’essere bloccato e impedito per legge. Questo ho detto, e lo ripeto qui. M’han risposto medici e infermieri: ma quale amore!, questa è ignoranza, questi han rifiutato la scienza in nome dell’antiscienza. Anche se fosse così, non cambia nulla: la mia opinione, da uomo e non da scienziato, è che questo rifiuto non doveva, tecnicamente, legalmente, essere possibile. 

 La ragazzina, ricoverata in un ospedale d’eccellenza a Padova, dopo la diagnosi e al momento d’iniziare la terapia, è stata portata via dai genitori in un centro svizzero, dove si praticava una terapia a base di cortisone. I medici di Padova li han denunciati, e loro han perso la patria potestà. Dopo mesi di cure soft eppure 'selvagge', la ragazza s’è aggravata, è rientrata nell’ospedale padovano, ma troppo tardi, ed è morta. I nostri medici dichiarano: «Noi potevamo salvarla». I genitori han seguito il metodo di un ex medico tedesco. E qui sta il problema. Perché 'ex'? Perché quel medico tedesco è stato radiato dall’Ordine, e il suo metodo è stato condannato come inefficace. Però è un metodo seducente. Non crea dolore, non debilita, non produce calvizie, non squassa gli organi interni.

È perfino convincente, perché all’inizio fa sentire meglio, sgonfia, migliora l’aspetto. Andare a trovare una figlia malata di una malattia terribile e vederla migliorata, dà conforto, anzi gioia. Capisco quei genitori. Sentivano premiato il loro amore. La ragazza si sentiva amata, era fiera di questo amore, ha scritto una lunga lettera in cui anche lei rifiuta la chemioterapia. Ma la mia domanda è: se quel metodo tedesco è scientificamente condannato, perché c’è un posto dove viene praticato? Se quel medico ha ricevuto numerose condanne, perché lavora ancora? Un medico mi risponde che, curando i bambini con handicap, ha scoperto che il loro primo handicap sta nei genitori, che si sentono feriti nel loro orgoglio di procreatori. 

 L’amore dei genitori può creare dei problemi nella cura dell’handicap, come nelle trasfusioni, come nelle vaccinazioni, come qui adesso nella cura con la chemio. Non possiamo condannare l’amore. Dobbiamo anzi ammettere che anche un figlio trattato con la chemio può morire, ma dire: 'Figlio mio, abbiamo fatto tutto quello che la scienza comanda', è diverso dal dire: 'Abbiamo disobbedito alla scienza dell’umanità'. Nel primo caso c’è impotenza. Nel secondo scatta il rimorso.