Opinioni

L’astensione per rispondere a una domanda mal posta. L’ambientalismo distruttivo che cerca l’energia altrove

Marco Olivetti giovedì 14 aprile 2016
L’astensione per rispondere a una domanda mal posta Davanti a ogni referendum abrogativo occorre porsi almeno due domande: da un lato occorre capire quale sia il quesito referendario (la domanda cui gli elettori dovranno rispondere) e quali siano le conseguenze giuridiche della vittoria dei Sì, dei No o dell’astensione; dall’altro, è necessario chiedersi quale sia il 'plusvalore politico' del referendum, cioè il significato di sistema che esso riveste e il messaggio che invia all’opinione pubblica e alla classe politica, al di là dell’effetto giuridico di esso. Ora, di fronte al referendum 'antitrivelle' del 17 aprile, entrambe le domande sollevano questioni complesse.  Ciò vale anzitutto per il quesito referendario, il quale ha ad oggetto l’art. 1, comma 239, della legge n. 208/2015, che vieta nuove trivellazioni entro le 12 miglia marine dalla costa italiana, ma fa salve le concessioni già esistenti. Esso, infatti, precisa che «i titoli abilitativi già rilasciati sono fatti salvi per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale». Il quesito propone di abrogare la seconda parte di questa frase, quella che inizia con le parole «per la durata di vita utile». Da ciò risultano due dati certi: entro le 12 miglia marine sono vietate nuove trivellazioni; ma le concessioni per le trivellazioni in corso restano valide.  Ciò che non è chiaro è fino a quando lo siano: fino alla durata utile del giacimento (con proroga automatica delle concessioni fino a tale data) o solo fino alla scadenza delle concessioni originarie? La Corte costituzionale, nel dichiarare ammissibile il quesito referendario, ha affermato che esso persegue il «chiaro ed univoco risultato di non consentire che il divieto stabilito nelle zone di mare in questione incontri deroghe ulteriori quanto alla scadenza dei titoli abilitativi rilasciati». Se ne desume che, in caso di vittoria del Sì, alla scadenza della concessione – di durata originariamente trentennale, ma in alcuni casi già prossima alla scadenza – gli impianti dovranno essere chiusi. In caso di vittoria dei No (o di mancato raggiungimento del quorum), le concessioni sono salve «fino alla durata in vita del giacimento». Se ne può desumere che la norma voluta dal governo Renzi ha disposto una proroga implicita delle concessioni? A chi scrive, a differenza di altri, pare che non sia così: quello che la norma prevede è che i titoli restano validi fino alla durata in vita del giacimento, ma, appunto, se validi: dunque essi scadranno alla data di scadenza della concessione e potranno essere prorogati, ma solo se la concessione verrà rinnovata dall’autorità competente, non automaticamente. Se già la dimensione tecnica del quesito è poco chiara, ancor più complessa è la questione del suo 'plusvalore politico'. In altre parole, quale 'messaggio' manderanno gli elettori in caso di vittoria dei Sì, dei No o dell’astensione? In questa sede, non interessa tanto la dimensione di politique politicienne, vale a dire l’indebolimento o il rafforzamento del governo Renzi, che si è schierato in favore dell’astensione, ma il significato del voto in termini di cultura politica. Anche qui, ovviamente, sono possibili più letture: si può da un lato leggere questo referendum come una indicazione in favore della necessità di superare le risorse energetiche fossili (più inquinanti) in favore di un futuro energetico basato sulle energie rinnovabili. O si può leggere un eventuale Sì come una nuova vittoria della cultura del Nimby ( Not in my backyard: non nel mio giardinetto), vale a dire di un approccio alle questioni ambientali (dai rifiuti agli impianti per produrre energia) che vuole allontanare dalla propria casa le attrezzature inquinanti (o, più spesso, quelle credute tali). Esiste il rischio che il referendum del 17 aprile spinga nella seconda direzione, una prospettiva miope, che oltretutto concepisce la tutela dell’ambiente in forma statica e negativa, mentre è solo grazie alla disponibilità di risorse energetiche che un Paese può garantirsi una base di ricchezza materiale, a partire dalla quale è possibile soddisfare i bisogni individuali e collettivi, soprattutto dei soggetti più deboli.  Questo, del resto, era l’approccio del padre dello sviluppo energetico italiano del dopoguerra, Enrico Mattei. Il che non è affatto incompatibile con un graduale passaggio verso un sistema basato sulle energie rinnovabili. Da questo punto di vista, il referendum del 17 aprile sembra invece proporre all’elettore la scelta fra ricavare dal nostro mare l’energia disponibile e importarla da lontano, pagandola di più e inquinando di più per il trasporto. In conclusione, sia per la natura non chiara del quesito, sia per il messaggio da 'ambientalismo distruttivo' che trasmette, a mio parere è giustificato ricordare la moralità dell’astensione. Come già in passato, è lecito e moralmente buono, in questo referendum, operare attivamente per far mancare il quorum, lasciando in vigore la norma che si vorrebbe abrogare, rifiutando non solo la risposta, ma la stessa domanda posta al Paese.