Opinioni

Ci serve il meglio del diritto «civile» e del diritto «comune». La via oltre vecchi schemi

giovedì 6 giugno 2013
Una letteratura consolidatasi negli ultimi decenni a cavallo tra economia e diritto stabilisce che le origini dei sistemi legali giocano un ruolo molto importante nello spiegare la genesi di norme, istituzioni e performance economica dei diversi paesi. Tale letteratura parte dalle due grandi famiglie della common law anglosassone e della civil law che, a partire dal diritto romano, ha generato le tre famiglie del diritto francese, tedesco e scandinavo. La common law nasce dal desiderio dei mercati e dell’aristocrazia terriera inglese di limitare il prepotere della corona britannica. La civil law nella sua declinazione moderna più importante, quella francese, dall’intento di Napoleone di usare il potere statuale per realizzare la propria rivoluzione amministrativa evitando che il potere giudiziario potesse interferire in essa. Le conseguenze di queste due genesi storiche così profondamente diverse hanno di fatto determinato le profonde differenze tra i due sistemi. Nella common law prevale la giurisprudenza e il pragmatismo e sono le sentenze dei giudici e la soluzione delle dispute che progressivamente sorgono a dettare l’evoluzione normativa. Nella civil law tutto è più strutturato dall’alto attraverso la redazione di codici ispirati ad una dottrina che ha un’ispirazione spiccatamente sociale. Hayek afferma efficacemente che le due scuole si rifanno a due diverse concezioni di libertà. Una libertà prevalentemente "da" e "di", volta ad aumentare l’autonomia dei soggetti non orientata ad un fine per la common law e una libertà "per" che subordina il diritto ad una finalità sociale per la civil law. Il rapporto con l’attività economica delle due culture giuridiche è profondamente diverso. Nella tradizione della common law si accompagnano prevalentemente le dinamiche del mercato mentre la civil law ha un approccio molto più dirigista. Il rischio della prima è dunque di produrre effetti negativi sul benessere della collettività tutte le volte che il mercato fallisce mentre il rischio della seconda è quello dello statalismo e dei suoi abusi. Il tema interessante da approfondire è come queste due culture hanno risposto alla prova della crisi finanziaria globale. Le considerazioni principali sembrano essere tre. L’approccio anglosassone orientato alla common law ha senz’altro commesso l’errore di aver avuto troppa fiducia nell’autoregolamentazione dei mercati finanziari rimuovendo progressivamente i limiti all’indebitamento e alla commistione tra banca commerciale e banca d’affari. La mano invisibile non ha funzionato bene perché i mercati lasciati a loro stessi hanno tendenze oligopoloidi. Sono stati infatti prodotti i "mostri" delle banche troppo grandi per fallire, eredità imbarazzante che i regolatori e gli stati non riescono oggi a gestire. Bisogna altresì riconoscere che l’intervento emergenziale all’apice della crisi anglosassone, sempre orientato dalla cultura della common law, è stato più tempestivo ed efficace.Molto pragmaticamente vista l’emergenza, esso non ha escluso un pesante seppur temporaneo intervento pubblico di capitalizzazione tramite acquisto delle azioni degli intermediari in crisi (nel Regno Unito le banche principali sono state nazionalizzate). Sapendo sfruttare i meccanismi di mercato (soprattutto negli Stati Uniti con il piano Tarp) i costi pubblici dell’intervento sono stati limitati realizzando guadagni in conto capitale. La capacità operativa emergenziale nei Paesi di tradizione di civil law è sembrata molto più lenta e macchinosa anche se in alcuni paesi come la stessa Italia la tradizione meno orientata alla protezione degli azionisti e del mercato ci ha consegnato un sistema bancario meno dinamico ma molto più stabile. L’ultima importante considerazione però è che il tempestivo intervento emergenziale anglosassone è stato per certi versi superficiale e non ha di fatto risolto i problemi strutturali che erano all’origine della crisi. Rimettere in piedi un ubriaco non vuol dire risolvere i suoi problemi di equilibrio. Bisognava avere il coraggio di smembrare le banche tropo grandi per fallire, ristabilire limiti severi all’indebitamento, eliminare gli incentivi perversi sui bonus e stock option che spingono trader e manager a prendere rischi sconsiderati di cui poi fanno le spese i contribuenti. Non basta infine rendere le politiche monetarie più espansive per far affluire liquidità all’economia reale. Wall Street in sei anni è tornata ai suoi massimi mentre l’economia reale stenta. Keynes diceva che non è sufficiente portare il cavallo alla fonte per costringerlo a bere. È tanto più vero se si portano alla fonte i cavalli sbagliati, ovvero intermediari che orientati alla massimizzazione del profitto trovano molto più interessante acquistare titoli che fare credito alle imprese con la liquidità ottenuta dalla Banca centrale europea. La via d’uscita che faticosamente s’intravvede è un mix tra una riforma significativa del modello di banca, più orientata alla tradizione della civil law, con il riconoscimento del ruolo preziosissimo del modello cooperativo ed etico molto più portato per sua natura a fornire credito all’economia reale e la pragmaticità e capacità anglosassone di individuare nuovi canali di finanziamento non bancari sui mercati finanziari per le imprese evitando gli azzardi speculativi che ci hanno portato alla grande crisi.