Opinioni

Il direttore Censis e la provocazione sulle «nozze zero». La verità, vi prego, sul matrimonio

di Massimiliano Valerii* martedì 19 luglio 2016

Il direttore Censis e la provocazione sulle «nozze zero» Siamo davvero destinati a diventare una società a matrimoni zero? Di qui ai prossimi anni, le nozze in Chiesa saranno solo un ricordo e le relazioni sentimentali saranno più fragili perché vissute senza sposarsi? E questa tendenza costituisce una minaccia al ruolo fondamentale che la famiglia ha svolto nello sviluppo sociale del Paese? Parafrasando W.H. Auden: la verità, vi prego, sul matrimonio. Lo studio del Censis diffuso in questi giorni analizza, in effetti, una crisi dell’istituto matrimoniale che appare epocale per gli sposalizi celebrati con rito religioso e in forte accelerazione anche per quelli civili. Nel 1974 nel nostro Paese i matrimoni erano stati 403mila, nel 2014 si sono ridotti a meno di 190mila (53%). I matrimoni religiosi, in particolare, sono stati 108mila nell’ultimo anno, il 54% in meno rispetto a vent’anni fa, il 71% in meno dal 1974. Oggi le nozze in Chiesa costituiscono il 57% di tutti i matrimoni celebrati, vent’anni fa erano l’81%, il 92% quarant’anni fa. Con la crisi, poi, anche gli sposalizi in municipio hanno smesso di aumentare ai ritmi dei decenni passati, quando la laicizzazione del matrimonio aveva svolto una funzione di relativa compensazione, frenando il calo generale.

 

Se il trend registrato negli ultimi vent’anni rimanesse costante in futuro, verosimilmente il 2020 sarebbe l’anno del sorpasso dei matrimoni civili su quelli religiosi e il 2031 l’anno in cui non si celebrerebbero più matrimoni in chiesa, ha stimato il Censis sulla base delle proiezioni statistiche. Le previsioni possono suonare come un puro esercizio teorico, ma servono a mettere il dito nella piaga. Perché ogni proiezione dice molto sull’assunto su cui si basa, cioè sui fenomeni sociali che abbiamo alle spalle.

 

Sarebbe limitativo ricondurre la crisi dell’istituto matrimoniale, che viene da molto lontano, alla deresponsabilizzazione affettiva delle giovani generazioni di oggi. Non siamo alla Tinder generation (dal nome del sito di appuntamenti), né all’apologia del dating, degli incontri mordi e fuggi, anche se tra i giovani appare innegabile una erosione della capacità progettuale di lungo periodo che dovrebbe essere associata alla scelta matrimoniale (non a caso, nel tempo aumentano i nuclei familiari unipersonali, cioè i single).

 

La verità è che il matrimonio ha smesso di essere il baricentro delle esistenze delle persone e della vita sociale. Coinvolge meno i giovani perché non è più una ragione primaria di uscita dalla famiglia d’origine; precede sempre meno l’esperienza della genitorialità; non funziona più come meccanismo di ascensione sociale per le donne. Rispetto al passato, infatti, ci si sposa sempre di più tra persone della stessa età e dello stesso status socioeconomico. Cenerentola oggi avrebbe poche chance di incontrare il suo Principe azzurro. 

 

 A un’analisi più avveduta non sfugge che quanto è successo dagli anni 70 in poi testimonia la vittoria del soggettivismo, che ha segnato fortemente la parabola di evoluzione della società italiana negli ultimi decenni. È un lungo corso di affermazione del primato dell’individuo che vuole decidere autonomamente sulle questioni centrali della sua esistenza, in cui si inscrivono anche i risultati dei referendum degli anni 70 sul divorzio e sull’aborto, fino a contemplare la possibilità – l’altra faccia della crisi del matrimonio – di vivere l’autenticità della propria relazione affettiva attraverso un libero patto d’amore al di fuori della cornice formale dell’istituto matrimoniale, religioso o civile. Si invertirà la tendenza? Non saranno certo sufficienti eventuali incentivi economici per riportare il matrimonio al centro della nostra società.

 

Così come non sarà un bonus bebè a fermare la denatalità che affligge il Paese. Perché, nell’epoca della disintermediazione (politica e sociale), la crisi del matrimonio va letta come il riflesso di una più generale tendenza a disconoscere l’autorità che c’è dietro quell’istituto – statuale o sacramentale che sia. Ecco perché la fuga dai matrimoni benedetti dal sacerdote come le stesse culle vuote ci riportano a quella solitudine esistenziale di individui che – protetti sempre meno dai sistemi di welfare pubblici e sempre meno capaci di elaborare il mistero e la fiducia come la fede richiede – non rischiano più, consapevoli che ogni azzardo lascerebbe impresse cicatrici profonde sulle proprie solitarie biografie personali.

 

E questo vale anche, se non soprattutto, quando si tratta di sposarsi e mettere al mondo un figlio. Gli anni venturi ci diranno se sapremo ritrovare una nuova cultura del rischio, che significherà ritrovare un modo diverso di stare insieme.

* Direttore generale del Censis