Opinioni

Le strategie. La vera sfida del clima che cambia è imparare a convivere col rischio

Paolo Viana venerdì 19 maggio 2023

Iniziamo col dire che di selvaggio c’è solo la chiacchiera. Spiegare le morti in Emilia Romagna con la sola cementificazione dei centri abitati, che sarebbe appunto, “selvaggia”, o, per contro, arroccarsi su tesi negazioniste e asserire che le alluvioni ci sono sempre state, significa disprezzare le vite perdute. Alla magistratura toccherà definire le responsabilità penali, civili e amministrative di quest’ennesimo disastro, ma è ormai chiaro che il dissesto idrogeologico, che per decenni è stato figlio dell’incuria, con il cambiamento climatico diventa un fenomeno multifattoriale, determinato, come certe patologie, da diverse cause. Non da una sola. La tesi anticapitalista spiega le alluvioni con la bulimia dei costruttori e invoca una moratoria per contrastare l’impermeabilizzazione del suolo italiano. Il problema esiste come esistono – a livello nazionale, europeo e internazionale – leggi, programmi, linee guida, strategie e chi più ne ha più ne metta.

LIspra, che ha autorevolezza scientifica da vendere, attesta che, per costruire nuovi quartieri e centri commerciali, noi italiani ci giochiamo ancora oggi 19 ettari al giorno. Nel nostro Paese la copertura artificiale del suolo è arrivata al 7,13% mentre in Europa è del 4,2% e insidia anche le aree vincolate. Bisognerebbe ricorrere alle ruspe, è chiaro, ma, per rendersi conto che questa “spiegazione” spiega poco basta chiedersi se sia realmente possibile spostare quartieri e centri commerciali dai luoghi in cui la gente vuole vivere. E poi ci sono i negazionisti che, nella foga di difendere il Progresso, brandiscono la statistica e sostengono che le alluvioni ci sono sempre state, sciorinando esempi che risalgono addirittura all’Alto Medioevo, incuranti del fatto che le serie storiche sono disponibili dal Novecento in quanto solo da allora si è iniziato a raccogliere i dati meteorologici con metodo scientifico.

Queste posizioni – entrambe – adulterano la discussione pubblica che dovrebbe volgere, per rispetto dei morti, dei danneggiati e di chi teme nuovi disastri, verso considerazioni più correttamente fondate sul dato scientifico e, per dirla tutta, meno ideologiche e strumentali. Mettiamola così: che ci sia o meno un cambiamento climatico in corso potrebbe addirittura essere irrilevante. Ciò che deve importarci è che fiumi e canali, bacini in montagna e rete fognaria in città così come si presentano oggi appaiono inadeguati, prima per efficacia e poi anche per efficienza, al clima che viviamo. Che bisogna pensare a modificare quelle infrastrutture, senza dimenticarci, nel frattempo, che in caso di piogge intense, occorre organizzare una rete di comportamenti funzionale ad abbassare il livello di rischio, che adesso è elevato. « Per prima cosa mettiamo in sicurezza le persone »: le parole del governatore dell’Emilia Romagna, Stefano Bonaccini, nelle ore cupe dell’emergenza, ci dicono che non possiamo aspettare la soluzione tecnica del problema; bisogna cambiare qualcosa nel nostro modo di vivere le emergenze e per cambiare questo qualcosa non bastano le ruspe. Dal Veneto alla Sardegna, dalle Marche all’Emilia Romagna, esiste nella storia del dissesto un tributo di sangue che dipende dalla sottovalutazione del pericolo e che si può, se non eliminare, quanto meno ridurre, affinando i sistemi di allerta sia sul piano previsionale che su quello della diffusione del messaggio alle popolazioni.

Dopo di che è indubbio che bisogna agire sulla rete dei corpi idrici naturali e artificiali che raccoglie, regima e distribuisce l’acqua piovana. Questa rete non funziona più né quando riceve poca acqua né quando piove a catinelle. Non è solo un problema di laghetti, per stare al Progetto presentato da Anbi e Coldiretti. Lo dimostrano le immagini di queste ore. Com’era stato preannunciato, gli stessi torrenti rinsecchiti nei mesi scorsi in poche ore hanno flagellato le città. Oltre venti corsi d’acqua in Emilia Romagna sono esondati in più punti. Anche nel centro di Bologna. L’esperienza vissuta da una regione che era considerata un modello di cura del territorio dimostra che tutti gli italiani rischiano. Nove milioni di loro più degli altri, dicono i rapporti ufficiali, giacché quei nove milioni abitano in aree vicine ai corsi d’acqua. Più di 16mila chilometri quadrati di territorio sono a rischio elevato, ma un certo grado di pericolo investe fino a 46mila chilometri quadrati. Programmare meglio gli interventi – come chiedono i geologi – converrebbe, visto che riparare i soli danni diretti dal dissesto costa più di sette miliardi di euro all’anno.

Il tema allora diventa quello di abbassare il livello di rischio, innanzi tutto umano e poi economico. Non che sia facile. Eventi come quelli che abbiamo sotto gli occhi sono sempre meno eccezionali ma restano tali e calcolarne i tempi di ritorno è complicato anche per i progettisti, giacché la maggior frequenza spiazza le statistiche di cui disponiamo. Lo ammette un esperto come Gian Battista Bischetti, ordinario di idraulica agraria e sistemazioni idraulicoforestali all’Università di Milano. «Smettiamola di parlare di “sicurezza” idraulica – dichiara –, un concetto che genera la falsa credenza dell’infallibilità, ma introduciamo nel dibattito pubblico quello di rischio residuo. Dove c’è pericolo, la presenza dell’uomo crea il rischio ed è difficilmente eliminabile». Una riflessione che riporta alle carenze della pianificazione: il calcolo del rischio idrogeologico nelle decisioni urbanistiche e progettuali è realtivamente recente – ha poco più di trent’anni – e le Amministrazioni locali, esattamente come le loro popolazioni, non accettano di buon grado vincoli e divieti a edificare. « La diminuzione del rischio – aggiunge Bischetti – non dipende solo da infrastrutture e manutenzione, ma anche dall’accettazione culturale di questi vincoli, dalla diffusione di una cultura della pianificazione e dall’esistenza di sistemi di allerta. Non ultimo, la gente deve capire che in caso di alluvione non deve assolutamente esporsi al rischio, perché in quei casi esso aumenta in tempi rapidissimi».

L’esperto non nega che esista anche un problema di efficienza della rete: « Nell’ultimo secolo, in molti casi, fiumi e canali si sono ridotti di sezione e larghezza, sono diventati più profondi ma in alcuni tratti hanno cambiato assetto morfologico, cioè sono più alti del piano campagna; ciò avviene soprattutto nel tratto di valle, dove sono stati ristretti per far posto agli insediamenti umani; il che evidentemente comporta effetti più gravi in caso di rottura dell’argine». Un tema che investe anche altre aree tristemente famose come il Polesine: realizzare arginature imponenti oggi può non essere la soluzione giusta, perché inducono un aumento del valore delle opere protette dalle arginature e un effetto psicologico nelle popolazioni che ritengono di aver annullato ogni rischio. « Non c’è rischio zero» ripete invece Bischetti.