Opinioni

La fine di un mito d’odio, i segni nuovi. La vera battaglia

Vittorio E. Parsi martedì 3 maggio 2011
Dopo quasi dieci anni di una caccia tanto frustrante quanto determinata, gli Stati Uniti sono riusciti a eliminare dalla scena Osama Benladen: il most wanted per antonomasia, il principe del terrorismo islamista, assurto a vera e propria figura trucemente leggendaria dopo l’11 settembre 2001. Fu quell’evento impensabile e imprevedibile a fare di Osama qualcosa di ben diverso dal capo di un’organizzazione terroristica. Il suo progetto di fare della religione uno strumento asservito a una politica fatta di aggressione, odio e intolleranza non sarebbe riuscito a trovare tanti seguaci senza lo stupore attonito provocato dal crollo delle Due Torri.La sua scomparsa rappresenta perciò un duro colpo per la galassia di sigle che si ispirano ad al-Qaeda e per tutto il ben più vasto mondo di fiancheggiatori, compagni di strada, ammiratori e persino indecisi che in questi anni sono stati attratti anche dalla sua capacità di sfuggire a ogni tentativo di cattura o eliminazione. Chiunque possa succedergli ai vertici dell’organizzazione ben difficilmente potrà eguagliare il suo malefico carisma, che Osama non aveva ricavato dal suo ruolo, ma dalla gigantesca mostruosità di quello che aveva saputo concepire e realizzare. Dal punto di vista simbolico, al-Qaeda senza Osama non esiste semplicemente più.In termini militari e organizzativi, evidentemente, le cose stanno ben diversamente. Al di là del contraccolpo psicologico che la sua morte provocherà nei suoi adepti, l’idra del terrorismo islamista è fornita di tante teste quante sono le sigle che conosciamo, ognuna capace di muoversi in autonomia, sia pure se dotata di mezzi minori e di un fascino decisamente inferiore. Nell’immediato, oltretutto, c’è da attendersi una possibile recrudescenza di attentati eclatanti, sia perché in molti vorranno vendicare la sua morte, sia perché, dentro e fuori al-Qaeda, la corsa a rimpiazzarlo nell’immaginario collettivo di quanti vedevano in Osama un profeta della restaurazione del califfato sarà vinta da chi riuscirà a compiere l’eccidio più efferato. Difficile che possano riuscire a eguagliare un’impresa come quella dell’11 settembre; quasi certo che ci proveranno.Osama era riuscito a imprimere il suo marchio sugli eventi dell’inizio del Millennio; a fomentare centinaia di attentati e di stragi; a provocare direttamente o indirettamente due guerre costate centinaia di migliaia di morti; a far deteriorare i rapporti tra Occidente e mondo islamico connotandoli come essenzialmente ostili, nonostante i mille sforzi compiuti da tanti – la Chiesa cattolica innanzitutto –, volti a impedire che una simile saldatura si compisse fino in fondo. L’uscita di scena di Benladen avviene, paradossalmente, nel momento in cui il suo progetto politico appare più vicino al fallimento. A quasi un decennio dall’11 settembre, eventi altrettanto impensabili e imprevedibili stanno attraversando il mondo arabo, ma dal segno ben più promettente: sono quelle rivoluzioni dalle quali esso uscirà comunque cambiato e le cui parole d’ordine sono "libertà", "giustizia", "dignità" e non "morte agli infedeli".Benché il Nord Africa e il Levante non siano necessariamente destinati a diventare la nuova culla della democrazia, essi ne costituiscono già ora la nuova frontiera. Su di essa i paladini della compatibilità tra islam, democrazia e rispetto assoluto per le minoranze dovranno vedersela non solo contro tiranni e generali, ma anche con chi ritiene che il maggior numero conferisca automaticamente il diritto a fare tutto ciò che si vuole. Mai come in questi ultimi mesi Osama e il suo messaggio sono risultati appartenere a un lontano passato, a un altro secolo: al punto che l’attentato di Marrakesch della scorsa settimana era apparso come un rabbioso, mortifero attestato "di esistenza in vita" di chi era consapevole che la storia stava probabilmente imboccando una strada diversa. Resta il punto di dove era nascosto Osama: a un tiro di schioppo da un’importante installazione dell’esercito pachistano. La conferma che Af/Pak (Afghanistan/Pakistan), più che un acronimo, continua a essere il fulcro della lotta contro emuli, sostenitori ed eredi dello sceicco del terrore. Gli americani sono riusciti ad arrivare a Obama solo perché non avevano informato i loro "alleati" delle proprie mosse. E le parole della Clinton "non ce ne andremo dall’Afghanistan" sembravano rivolte molto più a Islamabad che a Kabul.