Opinioni

La svolta Usa. Una causa perché i social rispondano dei contenuti

Stefania Garassini venerdì 27 ottobre 2023

Quanto sta avvenendo negli Stati Uniti, dove 41 Stati hanno intentato una causa legale contro Meta, proprietaria di Facebook e Instagram, è il segnale di un cambiamento radicale nel modo di considerare i social media. L’azienda di Mark Zuckerberg è accusata di aver utilizzato consapevolmente tecniche manipolative per agganciare e trattenere l’attenzione dei minori e di aver violato la legge sulla tutela della privacy dei minori.

L’iniziativa giudiziaria arriva in un periodo di acceso dibattito sul ruolo dei social media, con leggi e proposte normative che si susseguono negli Stati Uniti e in Europa, mentre oltreoceano un’istruttoria analoga a quella contro Meta è in corso a carico di TikTok. Ciò che accomuna tutti questi provvedimenti nelle aule giudiziarie e parlamentari è il tentativo di introdurre un principio che non a caso è sempre stato drasticamente rifiutato dalle aziende che gestiscono tali servizi, ovvero una più ampia responsabilità sui contenuti che circolano nelle proprie infrastrutture. Zuckerberg ha più volte ribadito di non poter essere considerato in alcun modo un editore che abbia una forma di controllo su quanto viene pubblicato all’interno dei propri servizi. Si tratta di una situazione che negli Stati Uniti è garantita dall’attuale legge sulla Telecomunicazioni (in una sezione in particolare, la 230, che in molti tra Repubblicani e Democratici vorrebbero oggi riscrivere).

Quanto ai contenuti illegali, Meta provvede a rimuoverli principalmente attraverso l’uso di algoritmi e moderatori umani. Una posizione più avanzata in questa direzione è quella dell’Unione Europea, dove il Digital Services Act, da poco entrato in vigore, mette in discussione la presunta “neutralità” delle piattaforme, invitando a un puntuale controllo. Del resto le ricerche ormai concordano nel confermare l’influsso profondo che l’utilizzo delle piattaforme social ha soprattutto sui bambini e sugli adolescenti, in particolare nell’accrescere il disagio proprio della loro età e nel favorire l’insorgere di sintomi legati alla depressione e di comportamenti autolesionistici.

Aveva lanciato l’allarme nel maggio scorso il Surgeon General, la massima autorità di salute pubblica statunitense, in un rapporto nel quale metteva in relazione la devastante crisi di salute mentale nel Paese con l’utilizzo dei social media. Una crisi che nasce ben prima della pandemia e che vede la curva dei sintomi depressivi nell’età 13-17 anni crescere a partire dal 2012, anno in cui Facebook acquisì Instagram e ne promosse l’enorme diffusione. Si tratta di quella che in ricerca si definisce una semplice correlazione, ma l’impennarsi di quella curva è impressionante. Difficile non pensare all’impatto della logica dei social, basata su un’esasperata quantificazione, in cui il valore di una persona è determinato dai numeri, quanti like, quanti follower, quante visualizzazioni, quanti commenti, quanti amici (ben visibili a tutti sullo schermo). Una sorta di arena dove si è costantemente sottoposti al giudizio altrui. Nell’età vulnerabile dell’adolescenza sono anche cruciali i contenuti in cui ci si imbatte, e non è pensabile che anch’essi non abbiano un’incidenza sullo stato di salute mentale, sulla disposizione verso la vita e verso il mondo, quando non promuovono direttamente comportamenti pericolosi.

Lasciare tutto questo agli algoritmi e a generiche raccomandazioni alle piattaforme perché sorveglino meglio quanto succede in casa loro sembra davvero troppo poco. Se negli Stati Uniti c’è già chi paragona l’azione legale dei giorni scorsi a quanto avvenuto con le imprese del tabacco, è indubbio che a tutte le aziende che operano nei social media sia chiesto un aumento di responsabilità. Del resto, se è vero che «per educare un bambino ci vuole un villaggio», come ha ricordato anche papa Francesco, non è pensabile che da questo villaggio possa chiamarsi fuori proprio chi gestisce servizi sui quali oggi i nostri figli spendono la gran parte del loro tempo e una buona fetta delle proprie emozioni.