Opinioni

Lavoro. Non solo Jobs Act: come vincere la sfida dell'occupazione

Leonardo Becchetti mercoledì 28 dicembre 2016

Gli ultimi dati Inps sul lavoro confermano le tendenze recenti: la proliferazione dell’uso dei voucher, lo strumento del lavoro 'goccia a goccia' che lo flessibilizza fino all’estremo, l’aumento dei licenziamenti per motivi disciplinari e la fine del boom dei contratti a tempo indeterminato (comunque aumentati) successiva alla conclusione dei vantaggi fiscali all’assunzione (insostenibili nel lungo periodo).

La situazione del lavoro è difficile e non può essere compresa se non sullo sfondo di due grandi questioni globali. Da una parte la concorrenza con l’«esercito di riserva» dei lavoratori a basso costo che, a parità di qualifiche, rappresentano una concorrenza formidabile ai nostri. Di qualche giorno fa la notizia dell’«aumento» del salario minimo in Birmania a 2,5 dollari al giorno. Globalizzazione e delocalizzazione tendono a generare crescita di salari in Paesi poveri ed emergenti e stagnazione nei Paesi ad alto reddito. L’Organizzazione mondiale del lavoro nel suo ultimo rapporto conferma la tendenza rilevando che i salari crescono nel primo gruppo di Paesi attorno al 2,5% all’anno mentre nel secondo sono praticamente fermi. Si tratta ovviamente di dati medi che nascondono tanti fenomeni e vanno presi con beneficio d’inventario. L’indicazione di fondo, comunque valida, è che il processo di convergenza di redditi e salari medi è in corso, ma sarà molto lento. E che il vero progresso sociale sta oggi nel miglioramento delle condizioni di lavoro degli ultimi nei Paesi a basso reddito, progresso purtroppo lentissimo ma che riporta in auge la famosa «opzione preferenziale per i poveri» che, da ideale del pensiero sociale cristiano, diventa anche scelta strategica per chi vuole difendere il lavoro da noi.

La seconda grande questione di fondo è quella della quarta rivoluzione industriale (Industry 4.0) determinata dagli sviluppi della meccatronica e dall’avvento di una nuova generazione di macchine intelligenti in grado di ridurre ancor più il ruolo del lavoro umano nelle catene di montaggio. Si tratta di una rivoluzione che, come in occasione delle tre precedenti, fa pensare a molti che sia arrivata l’epoca della fine del lavoro. Come in occasione delle tre rivoluzioni industriali passate si confonde però la fine di alcuni lavori con la fine del lavoro. Dimenticando che la crescita del valore economico prodotto dalle nuove innovazioni può generare nuovo potere d’acquisto che, se opportunamente tassato per evitare eccessiva concentrazione di ricchezza, genererà nuova domanda diffusa creando posti di lavoro in settori diversi. Di fatto ogni rivoluzione industriale del passato ha ridotto lavori di fatica e ripetitivi (dove la macchina sostituisce l’uomo) e ha creato ricchezza che si è riversata in settori che producono beni molto più intangibili. Anche questa volta non sarà diverso.

Resta la durezza di una transizione che, per le due tendenze di fondo considerate, sta distruggendo molti posti di lavoro generando una pressione al ribasso dei diritti e delle tutele a esso connesse e mettendo a rischio la sostenibilità sociale della globalizzazione nei Paesi ad alto reddito.

Per vincere la sfida bisogna lavorare su diverse dimensioni. Nel campo della formazione bisogna puntare alla capacità di risolvere i problemi e all’approccio delle competenze (che necessitano ma non si fermano alle conoscenze di base) favorendo tutti i possibili momenti d’incontro tra istruzione e mondo del lavoro. Le politiche fiscali e monetarie devono essere espansive per favorire investimenti e domanda ponendo le premesse per la creazione di nuovi posti di lavoro. La debolezza strutturale della domanda di investimenti del Paese (interni e esteri) va curata dosando in modo opportuno incentivi fiscali e concentrandoli sugli investimenti in macchinari e in giovani qualificati per aiutare le imprese a incorporare progresso tecnologico aumentando la produttività totale dei fattori.

In una situazione così difficile potrebbe riaprirsi la questione del Jobs Act se il quesito referendario su di esso sarà ritenuto ammissibile. Il Jobs Act (nello specifico dell’abolizione dell’articolo 18 e introduzione del contratto a tutela progressiva) è tecnicamente una riduzione dei costi di assunzione e licenziamento delle imprese. Sappiamo che provvedimenti di questo tipo tendono ad aumentare il turnover riducendo la disoccupazione di lungo periodo (e lo scoraggiamento e la perdita di competenze a essa connesse).

Ci muoviamo ovviamente sul crinale del rapporto tra qualità e quantità di lavoro: più quantità e meno qualità (nel senso di diritti e tutele). Una 'ritirata strategica' sul fronte dei diritti che purtroppo aiuta ad attrarre investimenti, creazione d’impresa e progresso tecnologico nella misura in cui quest’ultimo è connesso agli spostamenti frequenti di manodopera da settore a settore e da impresa a impresa. Come il Jobs Act non poteva essere la soluzione taumaturgica ai problemi sopra descritti così la sua abolizione può rappresentare, nel contesto sopra descritto, un 'peccato di idealismo' che finisce, in assenza di politiche sostitutive di riduzione del costo del lavoro, per produrre più danni di quelli che vorrebbe eliminare.