Opinioni

Washington. Elezioni Usa, la scommessa “a sinistra” di Hillary

Elena Molinari martedì 3 marzo 2015
Mancano dieci mesi al via della corsa alla Casa Bianca – con le elezioni primarie del gennaio 2016 – e la corsia repubblicana è già affollata. Un esponente del partito conservatore, Jack Fellure, ha annunciato la sua candidatura alla presidenza, sette stanno pubblicamente allestendo la loro campagna e un’altra dozzina sta tastando il terreno. In campo democratico, invece, regna il silenzio. Qualche sorriso strappato durante le interviste, qualche 'mai dire mai', ma nessuno osa dirsi pronto alla sfida. E non per mancanza di ambizione, quanto per la presenza di un convitato di pietra con cui nessun 'liberal' (nell’accezione americana) ha il coraggio di confrontarsi. Si tratta, naturalmente, di Hillary Clinton che, dopo essersi vista soffiare la nomination otto anni fa dal semisconosciuto Barack Obama, questa volta non ha lasciato niente al caso. Nonostante non abbia ancora ufficializzato la sua candidatura, l’ex first lady ha già allestito il quartier generale della campagna a New York e completato una squadra compatta che l’accompagnerà al voto: sarà guidata da John Podesta, clintoniano di vecchia data che si accinge a lasciare la Casa Bianca, come stanno facendo molti consiglieri di Barack Obama, per lavorare a tempo pieno alla campagna dell’ex first lady. Inoltre, nonostante sia stata oggetto dell’attenzione ossessiva di media e opposizione per tre decenni, l’aspirante presidente ha ingaggiato una società che scavi nel suo passato in cerca di potenziali punti vulnerabili. Quindi, ha cominciato a girare gli States tenendo cene e discorsi, cercando sponsor e sostenitori. I risultati non si sono fatti attendere. Folle entusiaste hanno accolto l’ex segretario di Stato ai primi raduni semi-elettorali a Austin, in Texas, e a Oakland, in California. Nella raccolta di fondi, inoltre, Hillary ha già vinto la cosiddetta primaria invisibile – la gara dietro le quinte per le risorse necessarie per la nomination: il principale Pac (Political action commettee, gruppo di sostegno) di Clinton non è lontano dal traguardo dei 500 milioni di dollari. A questo punto però bisogna fermarsi, per rispondere al dubbio che sorge immancabilmente quando si parla della cosiddetta 'inevitabilità' di Hillary Clinton: era la super favorita per la nomination democratica anche l’ultima volta, eppure ha perso. Obiezione giusta. Ma il 2015 non è il 2007. I candidati che hanno vinto la nomination del loro partito senza troppa fatica, come Al Gore, George W. Bush e Bob Dole, avevano in questo momento del ciclo elettorale il 50% dei voti nei sondaggi. Clinton, nel febbraio 2007, aveva il 40%. Oggi può contare sul sostegno del 60% degli elettori democratici. Molti esponenti di peso dell’asinello che offrirono il loro supporto a Obama si sono già schierati a fianco di Clinton. Ma forse la prova più schiacciante che le cose sono cambiate negli ultimi otto anni è che l’ex first lady ha sgomberato il campo ancora prima di scenderci: a questo punto del 2007 Obama aveva già dichiarato la sua candidatura. Qualcuno che può mettere il bastone fra le ruote della macchina da guerra dei Clinton però esiste, ed è un’altra relativa matricola della politica: Elizabeth Warren, divenuta la portavoce della sinistra democratica nei dibattiti sulle disuguaglianze economiche. Hillary è consapevole della minaccia, e non a caso ha invitato la senatrice del Massachusetts a casa sua a Washington per un incontro privato a dicembre, quando l’influenza di Warren si faceva sempre più evidente. Dopo le elezioni di novembre, il leader democratico al Senato Harry Reid le aveva affidato un ruolo di guida, incoraggiandola a sponsorizzare una legge che imponga nuove regole alle grandi banche. Allo stesso tempo un mosaico di gruppi liberali lanciava un movimento per trascinarla nella corsa presidenziale. Warren ha detto più volte di non essere interessata alla presidenza. Ma sa di rappresentare una sfida per Clinton, una voce con cui la futura candidata dovrà misurarsi nel delineare la sua piattaforma elettorale. Il populismo di Warren evidenzia infatti il problema maggiore di Clinton, quello di coinvolgere la classe operaia e media senza inimicarsi preziosi alleati nel mondo degli affari. La sola presenza nel dibattito politico di Warren rende più difficile per Clinton convincere le famiglie medie, le quali sentono di aver finora raccolto le briciole della ripresa e pensano che la senatrice capisca meglio la loro fatica. Paradossalmente, la campagna di Hillary Clinton nel 2008 era più a sinistra di quella di Obama, e, come fanno notare i suoi sostenitori, lei e a Warren hanno posizioni simili sui temi economici (sono più lontane su immigrazione e controllo delle armi). Ma l’immagine progressista di Hillary è stata danneggiata delle conferenze che ha tenuto a botte di 200mila dollari l’una (quattro volte il reddito medio annuo delle famiglie Usa), dietro pagamento di molte società di Wall Street. In effetti, la proposta elettorale che Hillary sta elaborando contiene molti cavalli di battaglia della sinistra, come l’aumento del salario minimo, l’investimento nelle infrastrutture, l’eliminazione delle scappatoie fiscali per le grandi aziende e un taglio alle tasse per la classe media. E gli analisti scommettono che vi troveranno posto anche idee che risentono dell’effetto Warren, come gli incentivi per le aziende ad aumentare la partecipazione agli utili dei dipendenti e leggi che diano ai lavoratori maggiore potere di contrattazione collettiva. Che molte di queste proposte si stiano consolidando non solo come la piattaforma di Clinton, ma come la filosofia emergente dello schieramento democratico rivela ancora una volta la forza dell’ex first lady. In particolare, è sempre più chiaro che Clinton seguirà l’iniziativa di Obama nel difendere misure per le famiglie della classe media, come i permessi parentali, l’asilo gratuito, l’estensione del credito d’imposta per i figli a carico e due anni di università gratuita per gli studenti meritevoli. È un’agenda con un grosso potenziale: può conquistare gli adulti con bambini sotto i 18 anni, che rappresentavano il 36% degli elettori nel 2012, e far leva tra i giovani dell’era Obama, quelli tra i 18 e i 34 anni, fra i quali il tasso di natalità è a minimi storici a causa anche dell’incertezza economica (i loro guadagni sono calati del 3,8% dal 2000). Presentarsi come i paladini economici della famiglia offre ai democratici e alla loro candidata anche l’unica possibilità di reclamare il sostegno tradizionale dei bianchi della classe operaia che hanno contribuito alla rielezione di Obama nel 2012, ma che ora sono incerti e tendono ad abbracciare la difesa della famiglia dal punto di vista dei valori offerti dai repubblicani. Inoltre, ciò dà a Hillary il vantaggio di parlare di espansione delle opportunità piuttosto che di redistribuzione del reddito, lessico inviso a Wall Street, mentre spunta le armi delle falangi più progressiste del partito e dell’unico ostacolo fra lei e la tanto attesa nomination: la senatrice Warren.