Opinioni

Regno Unito. La scelta di Lucy, il valore dei «Prof»

Roberto Carnero giovedì 27 luglio 2017

Arriva dal Regno Unito una notizia singolare, che infatti anche i media italiani non hanno mancato di riportare: una delle più brillanti giornaliste inglesi, Lucy Kellaway, editorialista di punta del Financial Times, su cui scrive da trent’anni, all’età di 57 ha deciso di lasciare il giornale per andare a insegnare Scienze in un istituto superiore di un quartiere popolare di Londra. Questa scelta inattesa, del resto, sembra quasi la naturale conseguenza di un suo impegno di vecchia data a favore del miglioramento del sistema di istruzione britannico, avendo lei fondato un ente non profit, Now Teach (Ora insegna!), pensato per convincere professionisti di diversi settori a diventare insegnanti.

Stupisce, comunque, che una giornalista affermata, al culmine della carriera, decida di lasciare tutto per andare a lavorare in una scuola di periferia. Sorprende in Italia, dove francamente non conosco professionisti assunti a tempo indeterminato – giornalisti, docenti universitari, ingegneri o ricercatori in aziende private – che accetterebbero di cambiare il proprio lavoro con quello di professore di liceo. Conosco invece diversi professori di liceo che accetterebbero molto, ma molto volentieri di lasciare la scuola per andare a fare i giornalisti, i docenti universitari ecc. Ma probabilmente è così anche in Inghilterra: non a caso la vicenda di Lucy Kellaway ha fatto notizia. La scelta di Lucy è molto bella, perché lancia un messaggio luminoso. È come se dicesse a tutti, compresi quei giovani che magari si stanno interrogando su cosa fare da grandi: "Ragazzi, guardate che insegnare è un lavoro stupendo. Io ora lo svolgerò perché, pur avendo la possibilità di fare altro, ho scelto di fare proprio questo". Lucy sta affermando, con il suo esempio, che per insegnare bisogna essere bravi, preparati, qualificati (come appunto è lei), e che gli alunni meritano bravi insegnanti.

«No one forgets a good teacher»: nessuno dimentica un buon insegnante. Ricordo – era la fine degli anni Novanta e vivevo a Londra – questo slogan, voluto dal governo di Tony Blair per una campagna volta ad attrarre nella scuola nuove forze, in un momento in cui i salari bassi e la scarsa considerazione di cui godevano gli insegnanti scoraggiavano i giovani dal voler salire in cattedra. In tv e nei cinema passavano degli spot in cui una scritta con la frase citata seguiva i volti, in primo piano, di personaggi famosi – leader politici (tra cui lo stesso Blair), attori, cantanti, sportivi – ciascuno dei quali pronunciava nome e cognome, per gli spettatori del tutto sconosciuti, di un loro vecchio insegnante: come a dire, gli insegnanti non sono raggiunti dalle luci della ribalta (come lo sono, invece, i politici, le rockstar, i calciatori...), ma il loro ruolo è importantissimo, e le loro parole, i loro comportamenti, i loro esempi, incidono in profondità sulla vita dei ragazzi a cui insegnano, contribuendo a determinare il loro futuro. Ora, sarebbe bello che anche in Italia a intraprendere la carriera di insegnante fossero le forze migliori.

Ma perché ciò accada bisogna rendere questa professione qualcosa di attraente. Tempo fa abbiamo commentato positivamente, su queste colonne, il fatto che la nuova formula per il reclutamento dei docenti stabilisce che chi, dopo la laurea, supererà un concorso, inizierà da subito un tirocinio retribuito. In molti si stanno chiedendo a quanto ammonterà lo stipendio degli anni di apprendistato, che saranno 3, prima dell’assunzione a tempo indeterminato. Non ci sono ancora risposte ufficiali, ma sarebbe opportuno che la cifra fosse congrua, cioè che si trattasse di un vero stipendio. Più in generale, non ci si può mai dimenticare – e non è forse inutile ricordarlo nell’imminenza di un rinnovo contrattuale, quello del comparto scuola, atteso ormai da quasi un decennio – che il prestigio di un lavoro si misura anche, o forse soprattutto (che piaccia o no, è così), sui livelli retributivi. È di qualche giorno fa la notizia che – in base all’ultimo rapporto dell’Ocse (Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico) relativo al decennio 2005-14 – i docenti italiani sono tra i più poveri d’Europa (sinceramente già lo sospettavamo...). Nessuno, a parole, nega l’importanza del lavoro di insegnante, ma purtroppo azioni concrete, da parte della politica, per ridare centralità al ruolo dei docenti sembrano ancora mancare. Non è impresa facile, ma è certo che l’obiettivo non si può raggiungere senza adeguati investimenti. Spiegano dall’Ocse: «La retribuzione e le condizioni di lavoro sono fattori determinanti per attirare, sviluppare e trattenere persone altamente qualificate». Non si potrebbe dire meglio.