Opinioni

Francesco all'Accademia per la vita. Il Papa e la malattia: la sapienza di stare accanto

Roberto Colombo venerdì 6 marzo 2015
Quando l’agenda di ogni giorno è sempre più dettata dalle emergenze sociali e dalle urgenze finanziarie e politiche che la crisi economica e del lavoro europea e quella della convivenza nella pace internazionale alimentano, il 'caso serio' è quello di dimenticare praticamente, se non di principio, che il primo e fondamentale bene, individuale e comune, è la vita dell’uomo. «La persona, infatti – ha ricordato ieri papa Francesco, parlando agli accademici pontifici – in qualsiasi circostanza è un bene per sé stessa e per gli altri ed è amata da Dio».  Anche se è anziana e ammalata. Anzi, proprio in queste circostanze, faticose e dolorose per chi le vive e per coloro che se ne prendono cura, affiora con maggior lucidità e incisività la coscienza di chi è la persona e quale bene prezioso è la sua vita, una saggezza che sola rende ultimamente lieto l’uomo: «La sapienza che ci fa riconoscere il valore della persona anziana e ci porta ad onorarla – ha precisato il Papa – è quella stessa sapienza che ci consente di apprezzare i numerosi doni che quotidianamente riceviamo dalla mano provvidente del Padre e di esserne felici».  Un richiamo tutt’altro che scontato in una società che diventa sempre più vecchia (in un secolo, l’aspettativa media di vita degli europei è quasi raddoppiata) e in cui aumentano le disabilità e le malattie nella fase terminale della vita, ma nella quale vi è un numero proporzionalmente in diminuzione di anziani che «possono godere di un’assistenza veramente umana e ricevere risposte adeguate alle loro esigenze» perché «ricevono sempre meno attenzione dalla medicina curativa e rimangono spesso abbandonati» dai loro familiari ed amici. Talora è anche possibile osservare come a un «accanimento terapeutico» sui pazienti più giovani si affianchi un «abbandono curativo» degli ammalati più anziani, fragili e con funzionalità compromesse da una patologia degenerativa. Terapia e cura non sono sinonimi medici e non devono essere confusi perché non rappresentano la stessa categoria clinica ed etica di azioni (spesso questo avviene nel linguaggio dei media, ed è fonte di pericolose ambiguità e sterili contrapposizioni nel dibattito sulle questioni del cosiddetto 'fine vita'): può accadere, e non dovrebbe, che si pratichi una terapia senza 'prendersi cura' del malato come persona, e si può (e si deve) curare un paziente sempre, anche quando ogni terapia volta a risolvere la causa del male di cui soffre è stata sospesa, perché inutile o troppo gravosa per il malato. Il trattamento 'palliativo' rappresenta un atto di cura, non di terapia: tuttavia – ha sottolineato papa Francesco – «questo tipo di assistenza […] non possiede meno valore per il fatto che 'non salva la vita'», non guarisce dalla malattia, non strappa dalla morte. «Le cure palliative realizzano qualcosa di altrettanto importante: valorizzano la persona».  L’«abbandono curativo» non riguarda solo medici, infermieri e altri operatori sanitari. Riguarda anche tutti noi, che siamo chiamati a 'prenderci cura' dei nostri anziani deboli, disabili e sofferenti. «L’abbandono è la 'malattia' più grave dell’anziano, e anche l’ingiustizia più grande che può subire: coloro che ci hanno aiutato a crescere non devono essere abbandonati quando hanno bisogno del nostro aiuto, del nostro amore e della nostra tenerezza», ha concluso il Santo Padre: «È questa capacità di servizio alla vita e alla dignità della persona malata, anche quando anziana, che misura il vero progresso della medicina e della società tutta», perché «non vi è dovere più importante per una società di quello di custodire la persona umana». 'Per vivere liberi, fino alla fine' – come recita una campagna a favore della legalizzazione dell’eutanasia – è necessario amare e servire la vita fino all’ultimo istante, senza abbandonarci alla disperazione né abbandonare nessuno alla solitudine e all’emarginazione dalla famiglia e dalla società.  Senza diventare prigionieri di una cultura della morte che, per falsa pietà, pretende di risolvere il dramma della sofferenza togliendo la vita a chi soffre.